Insula Feminarum / La Reverdie
Résonances médiévales de la Féminité Celte



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Arcana A 311


medieval.org
amazon.com
1997: Arcana A 59
2009: Arcana A 311


La mayoría de la obras previamente grabadas en Guinevere, Yseut, Melusine
y algunas ofrecidas también en concierto en Santander





Serca · Amores
«Ysot ma drue, Ysot m'amie en vus ma mort, en vus ma vie»
(Gotfried von Straßburg: Tristan, ca. 1225)

01 - Wyth right al my hert [1:20]
an. anglais, début XVe s. · Cambridge, University Lib., MS Add 5943
v 5

02 - Tir na mBan [3:08]
version instrumentale d'Elisabetta de Mircovich
vielles 2 3 6

03 - Se Geneive, Tristan [7:23]
an. français, XIIIe s. · Chantilly, Musée Condé, MS 546
v 3 · luth, vielle 3

04 - Lamento di Tristano & Rotta [7:00]
an. italien, XVe s. · Oxford, Bodleian Lib., MS
luth, rebec, vielles 3 6, harpe gothique, percussion

05 - Tre Fontane [8:24]
variations instrumentales de Doron David Sherwin
luth, flûte à bec, vielles 3 6, harpe gothique, percussion



Banflaith · Regalitas
«Rex est pax populorum, cura languorum, temperies aeris, serenitas maris, terre fecunditas»
(an. irlandais: De XII. Abusivis Seculi, VIIIe s.)

06 - Deus tuotorum militum ~ De flore martyrum ~ Ave Rex [1:33]
an. anglais, s. XIV, début XIVe s.
v 3 4 5

07 - Ave miles celestis curie ~ Ave Rex patrone patrie ~ Ave Rex [2:08]
an. anglais, s. XIV, début XIVe s. · Oxford, Bodleian Lib., MS e Mus. 7
voix 3 4 5 · luth, vielle 2 6, rebec

08 - Nobilis humilis Magne martir [3:22]
an. des Orkneys, XIIe s. · Uppsala, University Lib., Codex 223
v 1 2 3 4

09 - Quene Note [5:03]
FRANKES ?, début XVe siècle · Oxford, Bodleian Lib., MS Ashmole 191
version instrumentale de Doron David Sherwin
luth, flûte, rebec, vielle 6, harp gothique, percussion



Echtrai · Casus
«Ni raba-sa riam cen fer ar scath araille ocum»
(Tain Bó Cuaílnge, IXe s.)

Jacopo da BOLOGNA
10 - Di novo è giunto un chavalier [2:26]
ca. 1335-1355 · Firenze, Bibl. Naz., MS Panciatichi
v 3 4 · luth, vielle 2

11 - S'on me regarde ~ Prenés i garde ~ Hé mi enfant [1:50]
an. français, XIIIe s. · Montpellier, Faculté de Médecine, H 196
v 1 2 3 4

Donato da FIRENZE
12 - Seguendo 'l canto d'un uccel [3:12]
ca. 1355-1375 · Firenze, Bibl. Naz., MS Panciatichi
luth, vielle 2, harpe gothique, cornetto

Giovanni da FIRENZE
13 - Nel boscho senza foglie [2:28]
XIVe s. · Firenze, Bibl. Naz., MS Panciatichi
v 3 4 5


Físi · Visione
«I saw a swete semly syght a blisful birde a blossom bright that murnyng made & mirth of-mange»
(an. anglais, XIVe s.)

14 - Ave Maris Stella [1:28]
an. italien, XVe s. · Faenza, Bibl. Comunale, Codex 117
v 5 · luth

San Godric di FINCHALE
15 - Crist & Sainte Marie [5:30]
1080-1170 · British Museum Lib., MS Royal 5F
v 1 4 · vielles 3 6, harpe gothique, symphonia 2, cloche
16 - Sainte Marie Viergene [3:14]
1080-1170 · British Museum Lib., MS Royal 5F
v 3 · harpe romane

17 - Prima cedit femina ~ Mulierum hodie ~ Mulierum [1:23]
an. rhenan, XIIIe s. · Bamberg, Staatbibl., MS Lit. 115
v 1 2 3

Oswald von WOLKENSTEIN
18 - Ave mutter kuniginne ~ Ave mater [3:49]
1375-1457 · Innsbruck, Wolkensteinhanschrift B
v 1 3 4 · luth, vielle 2 6, symphonia 3, cornetto, percussion





La Reverdie

1  Claudia Caffagni · voix, luth
2  Livia Caffani · voix, flûtes à bec, vielle, symphonia
3  Elisabetta de' Mircovich · voix, vielle, rebec, symphonia
4  Ella de' Mircovich · voce, harpe gothique, harpe romane
5  Doron David Sherwin · voix, cornetto, percussions, cloche
6  Claudia Pasetto · vielle



Les instruments
Luth Ivo Magherini, Rome (I), 1988
Harpes Paolo Zerbinatti, San Marco di Mereto di Tomba (I), 1988
Rebec Paolo Zerbinatti, ibid., 1989
Cornetto Henri Gohin, Boissy l'Aillerie (F),1991
Vielle (2) Sandra Fadel, Valmadrera (I),1989
Vielle (3) Paolo Zerbinatti, v. sup., 1994
Vielle (6) Danieli Poli, Prato (I),1996
Flûte soprano Fulvio Canevari, Milano (I),1991
Flûte ténor C. Collier, Berkeley (USA), 1984
Flûte en sol Andreas Schwob, Stansstad (CH), 1992
Symphonia Paolo Zerbinatti, v. sup., 1989
Cloches Whitechapel Bell Foundry (GB), 1994
Tambour traditionnel iranien
Tous les instruments à cordes sont montés de cordes Aquila Corde Armoniche, par Mimmo Peruffo, Vicenza (I).

Enregistrement réalisé à l'Abbazia di Rosazzo (Udine), du 1er au 5 mars 1997,
par les soins de Charlotte Gilart de Kéranflèc'h & Klaus L Neumann.
Montage numérique: Charlotte Gilart de Kéranflèc'h
Production: Michel Bernstein & Klaus L Neumann



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Insula Feminarum. Echi medievali della Femminilità Celtica

Non poltrire su un inetto
e non lasciare che lo smarrimento t'assalga:
intraprendi un viaggio sul limpido mare,
per scoprire se è in tuo potere di trovare
Tir na mBan, la Terra delle Donne.
(Immrarn Bran, VIII s.)

Insula Feminarum, Tir na mBan, mis Ablach, il Castello delle Pulzelle, Avalon, l'Isle Joieuse... evanescenti, magnetici universi paralleli al femminile entro le cerchie fatate dei quali trovò asilo e sopravvisse, a dispetto dei travagli e delle convulsioni storiche, filosofiche e religiose, una concezione arcaica ed al tempo stesso modernissima della Donna e del suo ruolo nel mondo: isole beate, metafore, periferie (o travestimenti?) del Paradiso, che uomini di mare e di penna si ostinarono, per tutto il Medioevo, ad avvistare fugacemente, ed a bramare invano.

Le tappe attraverso le quali in Europa si perpetuò, di tradizione in tradizione, di secolo in secolo, l'archetipo fascinoso dell'Isola delle Donne, non sono che immagine speculare di quelle tramite cui forme e simboli della cultura celtica riuscirono a propagarsi nel Medioevo, subendo una lenta ma costante, fertile metamorfosi, superando fluidamente, senza traumi, barriere geografiche ed ideologiche.

Come per la gran parte dei prototipi seminali dei cicli epici, è possibile delimitare un nucleo di realtà fattuale, storica, dal quale prendono poi a diramarsi variegati e talvolta ribelli germogli narrativi. Già nel primo secolo il geografo Pomponio Mela menzionava le Isole di Sein, al largo delle coste bretoni, sede di un pittoresco santuario oracolare custodito da nove sacerdotesse vergini, dotate del potere di controllare gli elementi, di guarire le malattie e di trasformarsi in animali (tutte facoltà, queste, da tener ben a mente, considerate le successive, inesauribili riproposte nel materiale che esamineremo in seguito).

Il prestigio sacrale di luoghi di questo tipo contribuì certo, se non a creare, perlomeno a rendere più intenso e pervasivo il concetto, squisitamente celtico, di un alltar, ‘Altro Luogo’. Si tratta spesso — ma non necessariamente — di un'Isola, che condivide con la sua ellenica omologa indoeuropea, l'Isola delle Esperidi, la longitudine occidentale, la connotazione marcatamente femminile e la predominanza vegetale dei meli. In ogni caso, coesiste a fianco del mondo umano, ed è agli esseri umani accessibile, sia pur solo attraverso misteriose ed insidiose ‘Soglie’, al di là delle quali si penetra in un'Altra dimensione dell'essere.

A contatto col Cristianesimo, l'alltar non svaporò, al contrario: all'indolore fusione di Tir na mBan con Tir na mBec (letteralmente ‘Terra Viventium’ — termine che era però già presente in epoca precristiana) si può applicare quel che J.L.Weston («From Ritual To Romance», Cambridge 1920) diceva riferendosi in senso più generale alle innumerevoli trasmissioni di strutture simboliche dalla tradizione celtica a quella cristiana: «...v'era un qualcosa, in queste leggende, che non solo rendeva possibile, ma addirittura induceva alla loro trasposizione nell'elevato linguaggio simbolico del Cristianesimo». Fu così che alcuni fra i più celebri Immrama (genere letterario altoirlandese che narrava la meravigliosa navigazione iniziatica di un eroe in luoghi sovrannaturali) trovarono un'onorevole collocazione nella letteratura devozionale: verso il Nono secolo, i viaggi degli eroi Bran e Maelduin confluirono — senza soverchie alterazioni d'itinerario odi stile — nella Navigatio del semistorico Abate di Clonfert, San Brendano. Trasposto in chiave cristiana, il mito diviene ancora più immediatamente leggibile, ed il Santo parte dichiaratamente alla ricerca del Paradiso archetipo, della fonte dell'essere, laddove la meta finale di Bran/Maelduin era stata più ambigua; e non certo un caso che le più antiche e vivide visioni altomedievali d'un Aldilà cristiano (proprio quelle che troveranno nella Comedia dantesca la più perfetta, definitiva versione) compaiano in opere d'area celtica, nelle quali si tratteggiano paesaggi spirituali il cui fantasmagorico immaginario non trova paralleli in altre tradizioni europee.

Ma non solo la Chiesa incamerò le antiche strutture mitiche, conferendo loro nuove funzioni; anche la cultura profana ne subi il fascino e continuò a riproporle, spesso senza nemmeno tentare di decifrarle, adattandole alle nuove mode. Nell'Undicesimo secolo, quasi all'improvviso, entro il bacino culturale europeo continentale si riversa una sorta di inondazione celtica: solo il primo di tanti Rinascimenti Celtici, ripresentatisi a scadenze centennali d'una certa regolarità (pensiamo alle rêverie spenseriane d'epoca Tudor, a Stukeley ed ai suoi neoclassicheggianti Druidi, alle manie ossianico-romantiche, a Yeats, a certe sedicenti ‘riscoperte’ della New Age). Se gli autori di fiction teologico-avventurosa, seguendo a frotte le orme del primo Perceval di Chrétien de Troyes (1180 c.), attinsero a piene mani alle celtiche fonti concernenti il mito del Recipiente Sacro (l'ormai accertata ontogenesi del Graal a partire dal prototipo irlandese — e forse panceltico — del Calderone dell'Immortalità è stata l'oggetto di studi amplissimi), gli specialisti di argomenti profani — guerra ed amore — non furono da meno.

L'origine celtico-insulare dei romanzi arturiani e della leggenda di Tristano e Isotta (la matière de Bretagne), nonché di quel complesso e raffinato gioco intellettuale cui si di il generico appellativo d'Amor Cortese è un dato di fatto, anche se sussistono incertezze logistiche e cronologiche riguardo agli esatti canali e modalità di trasmissione (una delle ipotesi più accreditate postula un itinerario Irlanda-Continente via Galles, ad opera di autori bretoni al seguito dei conquistatori normanni). J. Darrah condensa efficacemente il concetto, in queste poche righe tratte da una recente monumentale rassegna dei motivi pre-cristiani nei cicli della Tavola Rotonda («Paganism in Arthurian Romance», Bury 1994): «La violenza e il sesso nelle leggende arturiane... seguono uno schema inscritto nella psiche umana in modo talmente profondo da spiegarne la lunghissima persistenza:...la loro origine è da rintracciarsi in consuetudini cultuali e religiose antichissime. Una volta delimitate, le caratteristiche fondamentali di questo sistema (un gruppo di eroi che si battono al fine di conquistare il breve possesso d'una Dea) sono facilmente identificabili con gli ingredienti-base, i topoi più comuni dei romanzi cortesi... Tanto gli antichi ‘vassalli’ delle divinità nei miti e nella vita reale, quanto i rappresentanti mortali delle divinità suddette (i re divinizzati) vennero trasformati in cavalieri medievali,... le loro controparti femminili in mogli od amanti. Quanto alla pulsione che, allo stadio originale, animava i grandi eroi (non tanto l'amore, quanto la devozione nutrita dalla vittima sacrificale nei confronti della propria Dea), venne interpretata alla stregua d'amore ‘romantico’: un concerto col quale il Dodicesimo secolo aveva ben poca familiarità Fu così che un' irresistibile tendenza, che trasformò per sempre il concetto che l'uomo aveva della donna, ed assicurò il perpetuarsi delle leggende arturiane nel loro ruolo di portavoci par excellence dell'amore ‘romantico’ medievale, fece quasi per caso il suo ingresso sulla scena letteraria».

La Dama delle liriche trobadoriche e dei romanzi cortesi era, in verità, assai differente dalle sue colleghe della vita reale: donne che nell'esercizio effettivo del potere non contavano pressoché nulla (se si eccettuano alcune notevoli eccezioni, confermanti la regola) si trovavano insignite, nelle teorie mistico-amorose in voga nei loro salotti, di potestà di vita e di morte sui maschi, e dai maschi erano cantate e riconosciute come fonti e suscitatrici d'ogni virtù, marziale e non — Padrone, ed Iniziatrici, proprio come le dee, le regine e le maghe guerriere dei miti celtici precristiani. Per dirla con Jean Markale, forse il più eloquente ed erudito portabandiera del moderno — scientificamente e filologicamente una volta tanto ineccepibile — Rinascimento Celtico: «L'Amor Cortese altro non è che la forma poetica assunta, nell'Undicesimo secolo, dal culto della Magna Mater Omnipotens... se la Regina si attornia di amanti non è certo per alienare la funzione della Regalità, bensì per trasmettere la propria potenza e conferire agli uomini la capacità di operare per il bene esclusivo della Regalità stessa... Entro la società cristiana medievale l'Amor Cortese costituisce un elemento alquanto sconcertante; le sue origini, benché vengano fatte passare per occitane, in realtà si riallacciano strettamente a delle problematiche fondamentali della cultura dei Celti e fanno riferimento al loro sistema giuridico e sociale» («L'Epopée celtique d'Irlande», Paris 1971).

La società celtica classica era (così come lo era, senz'ombra di dubbio, la società europea medievale nella sua totalità) basilarmente patriarcale. Tutte le società indoeuropee, del resto, lo erano: ma è innegabile che nel loro ambito la gamma degli orientamenti più o meno spiccatamente patriarcali era alquanto ampia. È così che, accanto a società nelle quali il ruolo della donna era nettamente subordinato e secondario (la latina, l'ellenica), ne troviamo altre in cui la funzione femminile era, almeno idealmente, assai più elevata e prestigiosa (la vedica, la germanica e, in misura ancora maggiore, la celtica). Non disponiamo ovviamente di dati precisi riguardo all'effettivo impatto sociale di questa particolarità nel mondo celtico. Tuttavia, quel che incontrovertibilmente traspare dalla mitologia, dall'epica, dalle consuetudini di successione matrilineari, è che la donna era considerata un essere dotato di una potentissima ‘energia’ — traboccante di mana, direbbe un antropologo — spirituale e materiale, che lei solo poteva, tramite determinati canali, trasmettere efficacemente al maschio.

Se, come pare assodato, gli specifici costrutti linguistici sono espressione profonda delle strutture mentali della società che le produce, gioverà rammentare qui che, negli idiomi celtici e germanici, i generi del Sole e della Luna sono invertiti rispetto alle lingue romanze. Al di sotto del linguaggio, traspare l'ideologia mitica: il principio attivo, perenne, datore di luce e di forza, è femminile; quello passivo, ciclico, gelido e vulnerabile è maschile (vedi ad esempio, in pieno Stil Novo, l'arcaicizzante immagine del cavaliere sul «destrier ferrato a ghiazza» e la sua disfatta ad opera della possente «Donna di chalora» nel madrigale di Jacopo da Bologna). Questa sorta di gioco d'inversione dei ruoli Sole/Luna si ricollega significativamente alle motivazioni mitologiche e sociali che produssero la diffusa, graduale manomissione (nel senso non tanto di ‘premeditata’ quanto di ‘funzionalmente imposta’) di un teologema già proprio all'intero bacino di civiltà europeo. L'originaria Dea solare, spodestata, dovette accontentarsi del dominio sulla Luna, mentre la ‘moderna’ figura dell'Eroe Culturale, di quell'Apollo debellatore del Serpente Pitone (tipico emblema, quest'ultimo, della Dea madre ctonia), si appropriò di competenze, prestigio ed attributi (vaticinio, dominio sul mondo animale, patrocinio della caccia, frecce apportatrici tanto di epidemie quanto di salute, legami particolari con cervi, lupi e grandi uccelli migratori) un tempo appartenuti alla propria Sorella-Madre-Rivale.

Quest'ultima è riconducibile al prototipo indoeuropeo Danu/Anu/Anna/Anann: tutte divinità femminili sovrane, queste, che nei più svariati ambiti culturali (dall'India vedica all'Irlanda, dall'Iran alle ancestrali aree degli Urali) compaiono sempre col loro corteggio d'uccelli sacri, associate alle acque (v. i nomi di innumerevoli fiumi europei, Don, Dnester, Danubio, RoDano e così via), al dominio sulle fiere, alle fonti ed alle sorgenti, alla fecondità materna. Queste dee (o piuttosto questi diversi avatar culturali della medesima figura divina) presentano una marcata tendenza a manifestarsi sotto un aspetto ‘trinitario’: forse lo stesso che — sino in pieno Cinquecento e soprattutto in aree d'antico insediamento celtico — si conservò, cristianizzato, nella peculiare iconografia della Anna Selbdritt, (la ‘Trinità’ al femminile composta dalla Vergine Maria e da Gesù bambino in grembo a Sant'Anna, che Masaccio stesso non ignorava). Questa ‘Dea delle Origini’ continuò, sotto le multiformi sembianze di varie proto-Diane/Artemidi (come l'ubertosa Dea Madre venerata nel santuario di Efeso, o la Dea madre Anu/Danann che in Irlanda dette il suo nome a località e ad episodi mitici celebri) a ripresentarsi in epoche classiche; e attraversò quasi indenne il passaggio al Medioevo riciclandosi come Anna sorella di Artù, come la Sant'Anna che alcune famiglie regali gallesi ponevano all'inizio dei loro pedigree dinastici, o come le varie Damigelle del Lago di Diana, Damigelle Cacciatrici (Cacheresses) che nei romanzi della matière de Bretagne svolgono nei confronti degli eroi tipiche funzioni stereotipate di iniziatrici/ispiratrici/persecutrici.

È nella dinamica della costante interazione di questi immemorabili archetipi con l'immaginario europeo in evoluzione, che va rintracciata l'origine di quel senso d'anelito, di viaggio iniziatico mai concluso alla ricerca dell'Eterno Femminino che costella credenze, culture ed arti, e che — eternamente inappagato — continua a produrre ciclicamente i nostri ‘Rinascimenti Celtici quotidiani’. Per dirla ancora, poeticamente e provocatoriamente con Jean Markale: «L'immagine della Donna celtica, quand'anche sussista a livello onirico piuttosto che di vita reale, è incontestabilmente più bella e ricca di significato di quella dell'ormai asservita etéra che in ambito mediterraneo tanto spesso rimpiazzò la Dea Primigenia, colei che veniva onorata ad Efeso molto tempo prima che quello stesso luogo fosse consacrato alla Vergine Maria... Per ritrovare nella sua pienezza la Dea Primigenia è necessario neutralizzare i mostri del caos e delle tenebre, che s'interpongono fra l'Eroe e la Donna della Luce. È cosi che può riapparire la misteriosa Dana, che gli Irlandesi consideravano la madre di tutti gli déi, e che i Bretoni riconobbero — pur se a livello inconscio — in Sant'Anna: colei che ha in sé tutti i nomi, e tutti i volti, la Donna-Sole».



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In ambito squisitamente celtico ci siamo trattenuti nella scelta dei titoli delle quattro sezioni: ricalcano alcuni dei primscéla, ‘generi letterari di prima categoria’, che dovevano tradizionalmente trovar posto nel repertorio dei filidh, una delle svariate categorie di bardi dell'Irlanda altomedievale, assoggettate a regole e consuetudini artistiche e deontologiche tanto dettagliate quanto severe.

I. SERCA—Tutti i brani della sezione degli «Amori» sono manifestazioni, disseminate nell'arco d'un paio di secoli, dei più tipici luoghi comuni dell'Amor Cortese. Una suggestione particolarmente celtica aleggia tuttavia attorno ad ognuno di essi: da Tir na mBan, brano eponimo della raccolta, doverosamente a tre voci (il Tre, numero mistico per i Celti, era un simbolo della totalità, della completezza, della Trascendenza e dell'abbondanza stessa — v. il significato con cui in francese è usato il termine très), a Wyth right al my hert (la cui eroina porta l'evocativo nome di Annis — una Black Annis fata/strega è tuttora presente nel folklore inglese), sino alle Tre Fontane del'estampie italiana, suggeritrici di luoghi a loro volta acquatici e trinitari, spesso e volentieri frequentati dalle Damigelle/Diane dei romanzi arturiani. Quanto alla nostra versione del celeberrimo Lamento di Tristano, nel suo sottofondo riecheggiano per noi due struggenti versi dell'Intelligenza, poemetto di un anonimo autore italiano del primo quattrocento: «Audi' sonar d'un arpa, e smisurava/(‘non si curava delle costrizioni della mensuralità musicale’? ‘si lasciava andare emozionalmente, con celtico abbandono’?) cantand'un lai, onde Tristan moria».

II. BANFLAITH—In altoirlandese questo termine può indicare tanto un concetto astratto ‘la Regalità, la Sovranità’, quanto un personaggio mitico: la splendida Dama ultraterrena il cui bacio, la cui amicizia carnale o le cui attenzioni più generiche fanno si che un uomo mortale venga automaticamente elevato al rango di Re, di ponte col sovrannaturale. Questo fondamentale concetto celtico (lo stesso per il quale, nei miti e nell'epica, le Regine — personificazioni tangibili della Banflaith — sono situate su un piano differente rispetto ai loro mariti, ed i Re sono re in quanto sposi, effettivi o mistici, di una Dea che, incarnata o meno in una regina mortale, è la vera signora del reame) influenzò in modo determinante le successive teorie medievali sulla Regalità. Ciò, si verificò mediante un processo di trasmissione che si potrebbe, quanto mai sommariamente, schematizzare così: dall'antica Irlanda monastica, depositaria ed in un certo senso addirittura custode delle tradizioni autoctone precristiane, al vivace ambiente intellettuale anglosassone dell'Ottavo secolo; da questo ambiente (tramite personalità come Alcuino e Scoto Eriugena, ad esempio) alla Schola Palatina carolingia, e di qui al Medioevo in toto. Si produsse inoltre quasi parallelamente, in alcuni milieu nordeuropei ed insulari, un interessante fenomeno: quello dei Re Vergini — vergini in quanto, presumibilmente, consorti mistici per tradizione dell'antica Dea o, piuttosto, in quanto gelosamente posseduti da quell'astratta, filosofica personificazione che è la Banflaith. Canonizzati da un clero che, come quello anglosassone ed irlandese, considerava tuttora il sovrano come fisicamente, visceralmente responsabile del benessere del regno (cfr. l'eloquente definizione posta a corona dell'elenco dei brani della presente sezione, e tratta da un trattato di teologia politica dell'epoca), continuarono a godere di un fiorente culto sino al tardo Quattrocento. Sono qui rappresentati due casi particolarmente eclatanti, quello di San Magnus Erlendsson, jarl delle Orcadi in vita, nonché loro patrono dopo l'immatura morte per mano del cugino Hakon Pálsson (Nobilis humilis Magne), e quello di Sant'Edmondo, ultimo re d'East Anglia e patrono d'Inghilterra (Deus tuorum militurn/De flore martyrum e Ave miles celestis curie/Ave Rex), la cui agiografia trabocca di suggestivi motivi mitici di chiara ascendenza celtica (dalla ‘morte multipla’ durante il periodo sacrificale del Samuin — novembre — al prodigio della testa mozza parlante, che lo accomunano a tanti Re dei cicli epici irlandesi).

III. ECHTRAI—Le costanti dell'Avventura di tradizione celtica si potrebbero schematicamente ridurre a tre: la Cerca (di una Persona, di un Animale o di un Oggetto di capitale importanza materiale e spirituale); la Visita nell'Alltar — o dall'Alltar — (nel corso della quale una Dama od un Re sovrannaturali irrompono nell' Aldiquà per rapire o chiamare a sé un mortale del quale si sono invaghiti); e la Contesa Stagionale (in cui il tema rimane sempre sostanzialmente quello del giovane campione della Rinascita — talvolta incarnato da una fanciulla — che si oppone vittoriosamente alle declinanti potenze dell'Inverno). Di novo è giunto un chavalier è riconducibile, manifestamente, a quest'ultima categoria: laddove la seconda è rappresentata da Seguendo 'l canto, la cui arturianissima ‘Diana’ condivide con le già menzionate Grandi Dee celtiche il mitologico Albero di Mele, l'aspetto zoomorfo e guerriero, nonché uno di quegli Uccelli Messaggeri seguendo il volo dei quali — perlomeno a detta dello storiografo tardolatino Giustino — si svolsero persino migrazioni d'intere popolazioni, come nel caso degli Illiri. Ad un'esemplare cerca ibrida assistiamo infine in Nel boscho sanza foglie, ove la Damigella Cacciatrice viene a sua volta cacciata, sotto il travestimento (prediletto da fate e streghe del folklore irlandese) di una ‘lepre bianca’. Notiamo qui di passaggio che questa marcata arthurian connection dei testi sottesi all'Ars Nova non fa altro che perpetuare un'annosa familiarità del milieu artistico dell'Italia settentrionale e centrale con la matière de Bretagne. Già alla metà del Dodicesimo secolo, sul portale Nord del Duomo di Modena incontriamo un bassorilievo raffigurante un raro episodio tratto dal Ciclo della Tavola Rotonda: e le peculiari forme che i nomi di Ginevra e dei cavalieri assumono nelle iscrizioni esplicative rimandano direttamente a fonti primarie in medio bretone — la cui conoscenza in area emiliana è un'ulteriore, stupefacente prova dell'ubiquità e della pervasività dei motivi letterari celtici.

IV. FISI—Per questa sezione prevalentemente ‘mariana’, che rende conto del coincidere dell'auge dell'ideologia cortese con una prodigiosa espansione del culto della Vergine, lasciamo ancora una volta la parola al talento sintetico di Jean Markale: «Tutti i grandi santuari dedicati al culto della Vergine Maria sono perlopiù luoghi consacrati precedentemente ad una divinità femminile celtica, per non menzionare che Puy-en-Velay e Notre-Dame di Chartres... il culto della Dea Madre fu sempre tenuto in grande onore presso i Galli.., una delle (sue) statue... era collocata in un santuario sotterraneo, nel medesimo luogo in cui sorse la cattedrale di Chartres: e quella che era detta la Virgo Paritura divenne Notre-Dame-de-Sous-terre, oggetto di venerazione da parte dei pellegrini cristiani... Pareva si fosse celebrato in modo definitivo il trionfo di Jaweh e di Cristo: ma sullo sfondo riappariva l'inquietante e desiderabile figura della Vergine... che assumeva appellativi alquanto sorprendenti: Nostra Signora delle Acque, delle Ortiche, del Roveto, dei Tumuli, dei Pini».

Quanto a Godric, l'eremita britannico dal tempestoso passato di mercante-pirata, che intratteneva con la musica, gli animali ed il mondo sovrannaturale rapporti altrettanto confidenziali (Sainte Marie Viergene gli venne fatta imparare a memoria in sogno dalla Vergine in persona, Crist & Sainte Marie lo apprese dalle labbra dell'amata sorella Burgwen da poco defunta, apparsagli in visione accanto a due angelici accompagnatori), cosi si esprime su di lui la studiosa Margarete Riemschneider («Die Religion der Kelten», tr. it. Milano 1979): «Se osserviamo attentamente vedremo che tutta la sua leggenda è un'interpretazione cristiana delle antiche saghe celtiche... più strettamente di altri Godric è collegato con gli animali che, un tempo simboli del mondo ìnfero, diventano dei gentili compagni dei Santi... fra questi ultimi, quelli che hanno qualcosa di tipicamente celtico anche dopo la conversione restano vicini agli artigiani e ai contadini, in particolare quando diventano eremiti».

Chiudiamo questo periplo alla volta dell'Isola delle Donne col lucido tentativo di una donna, Hilda Ellis-Davidson («Myths & Symbols in Pagan Europe», Manchester 1988), di analizzare col giusto equilibrio fra erudizione filologica ed emozionalità alcune delle più profonde radici dell'Europa, riconciliandole fra loro e restaurandole a rinnovata significanza — e si tratta di quelle medesime radici le cui minute, intricate propaggini LAREVERDIE ha tentato qui di ripercorrere sino ai loro più tardi germogli: «Benché sussistano gravi problemi, vi sono altrettanto grandi ricchezze lasciateci dalle... antiche popolazioni dell'Europa nordoccidentale... che meritano qualcosa di più di un'analisi pedante. Lungi dall'accontentarsi di litigare a proposito di minuscoli frammenti avulsi dal contesto totale, avremmo bisogno di porci alla ricerca di tutto quanto sia possibile apprendere riguardo ad una concezione del mondo che per molti uomini e molte donne conservò assai a lungo la propria validità, così da renderci conto in cosa consistessero i punti di forza insiti in tale concezione. È in questo modo che un giorno potremo forse comprendere meglio dov'è che la nostra concezione del mondo ha i suoi punti di forza, oltre che le sue debolezze».

Ella de Mircovich



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