Ritus Orphæos
/ Simone Sorini
Il Cantore al Liuto nella storia, dal Medioevo all'Epoca d'Oro
Simone Sorini
"Ed
essendo lo stromento del Leuto più perfetto d'alcun 'altro stromento
ritmico, hò voluto prima cominciare a trattar di esso, anzi che per la
perfettione che si trova in detto stromento l'è commune opinione di
haverli dato il nome regio chiamandolo Re delli stromenti ritmici, la
qual cosa non si dice dell 'altri stromenti di corde di nervo, come sono
Teorbe, Arpe, Bordelletti, & Chitarre alla Spagnola, & è
talmente perfetto il Leuto che pòdendo il sonator di quello ha suo
bell'aggio bassare e alzare i tuoni, & semituoni delle voci, potrei
farlo facilmente, mediante la cosa del tastare, trahendo da una sola
corda tre, quattro, e cinque voci, per il che potiamo dire, che per le
ragioni portate di sopra gli Suonatori del Leuto sono stati posti nel
settimo grado dell 'Arbore".
Da questo passaggio è semplice dedurre quale fosse l'importanza
dello strumento nella Napoli di fine secolo;
va inoltre tenuto sempre in conto che quando un trattatista riporta
un'informazione in riferimento all'utilizzo od alla pratica esecutiva di
uno strumento, ciò implica che questi fossero ben consolidati nell'uso
comune già da molti anni prima.
"Sommamente
si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e a ciascuno che a
que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e ebbe sua usanza; e
assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di piacevole e
maestrevole nota a questi cotali facea rivestire".
Dante si cimentò più volte in fatti ed annotazioni concernenti la musica,
e in special modo proprio il liuto,
le sue fattezze e i suoi protagonisti — tanto da far pensare che una
tale conoscenza fosse frutto di una frequentazione oggettiva con lo
strumento — sia nella Divina Commedia, sia in un brano del Convivio,
dove paragona ad un nappo (un grande cucchiaio)
lo strumento che veniva allora definito "chitarra italiana",
un liuto di piccole dimensioni che diventerà poi il mandolino o
mandola, una metafora dalla quale dobbiamo dedurre che quest'ultimo era
sicuramente scavato in un unico pezzo di legno,
e non con il guscio formato da doghe incollate fra loro.
Io vidi un, fatto a guisa di liuto,
Trovatori e giullari, i musici della Divina Commedia "Magistro Thome Bambasie De
Ferraria lego luutum meum bonum, et eum sonet, non pro vanitate seculi
fugacis, sed ad laudem Dei eterni".
Dunque ne possedeva uno, e
lo usava per accompagnarsi nel canto; suggestivo pensare che proprio
con l'ausilio di quello strumento compose ed intonò alcune delle sue
celebri canzoni. "per trattenimento la sera se li fece udire musica e particolarmente madama Virginia che sodisfece infinitamente"
Virginia dunque cantava e diminuiva madrigali sul liuto;
a lei fu dedicato il Primo libro dei madrigali a 4 del mantovano Giovanni Maria Rosso del 1567. "Imparò
infiniti madrigali in liuto, et ode e altri versi latini, e cantava con
disposizione così pronta, delicata e piena di melodia che i più
intendenti se ne meravigliavano".
Avendo ascoltato a Venezia alcuni allievi di Tromboncino
cantare alla sua maniera, essa se ne impadronì col suo semplice
naturale istinto e giudizio, e ben prestò fu in grado di cantare molte
canzoni in quello stile particolare che prediligeva un tipo di canto
improntato alla più grande dolcezza.
Simone Sorini
PREMESSA – L'ESECUZIONE VOCALE E STRUMENTALE
La
pubblicazione di questo CD corrisponde ad un mio desiderio di offrire
una raccolta dei brani più belli e significativi che ho interpretato e
che più mi hanno segnato in oltre venti anni di attività in giro per il
mondo, selezionati tra quelli a mio parere più rappresentativi di come
si sia sviluppata la particolare figura del "Cantore al Liuto",
dal medioevo sino alla sua età d'oro, il XVI secolo.
Accompagnare il proprio canto con uno strumento a corde rende di fatto possibile il
recupero di una performance vocale intima e vibrante,
comunque lontana da quegli stilemi consolidati, tramandati ormai da
generazioni di interpreti, che tendono ad omologare qualsivoglia
repertorio. Per altri aspetti favorisce lo sviluppo organico sia del
respiro ritmico che del naturale crescendo emotivo, peculiare di ogni
singolo brano.
La mia interpretazione vocale è suggerita
in tutti i casi dalle melodie stesse, ma e generalmente improntata alla
massima dolcezza del suono — il requisito considerato più indispensabile
da e per gli interpreti del passato — oltre alla intelligibilità del
testo letterario.
In quasi ogni brano ho aggiunto alcune mie personali variazioni improvvisative
alle melodie stesse, un atteggiamento nei confronti
dell'interpretazione della pagina antica che considero oramai
irrinunciabile e del tutto verosimile; ciò accade con maggiore evidenza
nelle tracce n. 1, 2, 13, 15 e 16.
Ho voluto inoltre
differenziare la musica trecentesca da quella più tarda in base ad una
particolare attenzione all'estetica generale dei diversi momenti
storici, un 'indagine che mi induce a rileggere i brani medievali in
maniera sobria — certamente ricca di bellezza, profondità e sacralità ma
priva di atteggiamenti affettati — per cercare di trasmettere la stessa
essenzialità che si ritrova nelle pitture, negli edifici sacri, nella
poesia e nella letteratura del '300: una sorta di controparte musicale
contemporanea delle opere di Giotto, Gentile, Martini, Dante,
Petrarca e Boccaccio, tanto per citare i più noti.
Per i brani compresi nella sezione "Epoca d'Oro"
mi sono avvalso delle varie testimonianze relative alle esecuzioni di
"cantori e donne al liuto" soprattutto di ambiente roveresco (come
Serafino Aquilano e Virginia Vagnoli), nonchè del trattato "Prattica di
musica" vol. 2 di Lodovico Zacconi.
Riguardo l'esecuzione strumentale
ho considerata avulsa da questo progetto ogni tipo di ridondanza
virtuosistica: per il cantore al liuto lo strumento è un supporto della
voce, mai ed in nessun caso prevale su di essa.
Per ipotizzare e differenziare diverse modalità di accompagnamento,
le riduzioni strumentali di alcuni brani del Rinascimento sono
prevalentemente accordali ed incentrate sul movimento melodico dei
bassi, così come io credo si facesse talvolta; solo alcuni passaggi
polifonici sono riprodotti come in partitura (tracce 10, 13 e 15), in
altri casi tutte le parti sono suonate in polifonia come da intavolatura
(tracce 8, 9, 11, 12 e 16).
Per quanto riguarda gli strumenti,
ne ho suonati otto diversi, tutti strettamente inerenti alla musica con
ciascuno eseguita, allo scopo di differenziare ed arricchire il suono
complessivo del disco: nella parte "Il Medioevo" si possono
ascoltare la guitarra morisca (traccia 2), la guinterna (3, 4, 7), la
citola (6), il grande liuto non tastato (i), il piccolo liuto tastato a 4
cori (5) ed il liuto a 5 cori (8). Nella sezione "L'epoca d'Oro":
il liuto a 11 corde rinascimentale (tracce 10, 11, 12, 13, 15, 16),
la cetra rinascimentale (14) ed il liuto a 5 cori (9).
DALLE ORIGINI ALL'EPOCA D'ORO DEL CANTORE AL LIUTO
Sin
dall'antica Grecia la musica fu l'inseparabile compagna della poesia,
ed in particolare furono gli strumenti a corde, pizzicate o sfregate
con un archetto, ad accompagnare dalla remota antichità il canto epico,
trovadorico e goliardico.
Le tragedie erano recitate cantando
(una pratica che fu riscoperta all'inizio del XVII secolo con gli esiti
ben noti per la nascita del teatro dell'Opera), e non vi fu poeta che
non fosse anche musico.
La poesia e l'aneddotica di carattere
epico-solenne e religioso erano appunto tramandate attraverso la musica,
come anche la semplice trasmissione di notizie da un luogo all'altro.
E' per questo che uno strumento come la lyra divenne un simbolo dei poeti e della loro arte:
personaggi mitologici come Jubal, Orfeo, Apollo,
sono sempre rappresentati con questo strumento od un suo derivato, uno
strumento, appunto, che con il tempo assumerà forme diverse,
trasformandosi quindi di secolo in secolo in quello più in voga al
momento — ma sempre ed immancabilmente a corde, ed, in molti casi, a
corde pizzicate.
E' proprio a causa della mitizzazione
sia del personaggio che lo recava, sia dello strumento stesso — che si
diceva avesse il potere di ammansire le fiere o di smuovere le montagne —
che i poeti umanisti del Rinascimento, in un evidente desiderio di
identificazione, cominciarono ad imbracciare i suddetti cordofoni,
spesso facendo passare liuti o chitarre per la mitica lyra: cantore al liuto
definisce infatti colui che canta accompagnandosi con uno strumento a corde in senso generico,
quindi non necessariamente un liuto.
Com'è
noto i popoli mediterranei preferirono sempre il suono delle corde
pizzicate a quello delle corde sfregate con l'arco, e ciò motiva
l'assoluta predominanza dei liuti e degli appartenenti a tale famiglia —
ben prima che l'archetto fosse in uso — nei paesi del sud Europa, come
Spagna e Italia.
Il liuto ed "i liuti"
Ancora oggi ogni costruttore o riparatore di qualsiasi tipo di strumento musicale è definito liutaio:
ciò basterebbe a chiarire quale fu l'importanza del liuto nei secoli,
uno strumento dal carattere individuale, poco utilizzato in ensemble o
consort di genere, e forse per questo eletto dai solisti come supporto
insostituibile per l'accompagnamento della loro voce. Il cantante poeta
trovava nel liuto un appoggio ritmico, solido e vibrante
all'occorrenza, che mai andava a sovrapporsi alla voce stessa
esaltandone invece le caratteristiche timbriche, e che sapeva anche
essere dolce, ricco di mille sfumature. Fu lo strumento dei Principi e
dei Re, ma anche il fedele compagno di viaggio di trovatori, poeti girovaghi,
giullari e saltimbanchi, che lo portarono con sé custodendolo
gelosamente pur nelle mille avventure dei musici di strada.
La storia del liuto
inizia nell'antico Egitto, dove era molto usato — come ci dimostrano le
varie iconografie — già nel periodo predinastico: ne è testimonianza
anche l'esistenza di uno specifico geroglifico detto "nefer", molto rappresentato nelle iscrizioni,
che raffigura l'immagine del liuto esprimendone il significato.
Verosimilmente,
almeno a giudicare dalle immagini che sono giunte fino a noi, si
trattava all'epoca di uno strumento suonato prevalentemente da
sacerdotesse, quindi femminile e cerimoniale.
Il liuto egizio
venne acquisito dagli arabi e dai persiani che ne modificarono la forma:
divenne più grande, e furono aggiunte sempre più corde sino a
raggiungere le sembianze che possiamo ancora oggi riconoscere nell'oud.
Solo molto più tardi, in seguito alle invasioni ed al succedersi delle
varie dinastie di califfati nella Spagna meridionale, lo strumento prese
piede anche in Europa, dove persistette nei secoli, dando anche qui
origine a numerose varianti sia per quanto riguarda la morfologia che i
materiali usati per la costruzione.
La prima testimonianza italiana di un liuto piriforme piuttosto grande e simile
all'oud arabo si trova in Sicilia, nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo,
edificata nel 1140: le immagini che tramandano musici e danzatori sono
da considerarsi tra le prime testimonianze artistiche del passaggio
della cultura araba in Italia.
Alcune tra le più dettagliate iconografie europee dei liuti
si trovano inoltre nelle miniature delle Cantigas de Santa Maria
nel codice El Escorial, dove compaiono svariati strumenti a corde
come la guitarra morisca o saracenica e la guitarra latina,
termini che potrebbero entrambi designare particolari forme assunte dal
liuto nel medioevo spagnolo (entrambi menzionati in un trattato di
Johannes de Grocheio) e che comunemente oggi si assegnano ai due
strumenti a manico lungo e dalla cassa piccola e stondata, o leggermente
oblunga e sagomata sui fianchi, visibili appunto in alcune miniature
del manoscritto.
Per capire l'evoluzione del liuto dal medioevo cristiano sino al 1500 —
il secolo del suo massimo splendore — è necessario considerare alcuni dettagli:
il primo è la tastatura del manico;
il secondo è l'utilizzo, e le varianti, del plettro.
La presenza o meno di tasti consente di risalire all'uso che si faceva dello strumento:
l'assenza di essi denota un utilizzo prettamente melodico e ritmico del liuto,
ma esclude decisamente quasi ogni tipo di uso accordale od armonico in
senso lato. L'aggiunta dei tasti — mobili nella maggior
parte dei casi — alla tastiera, coincise con la diffusione di brani di
repertorio dedicati verosimilmente ad un'esecuzione strumentale
potenzialmente solistica; in seguito, il perfezionamento e l'uso della
tastatura portò anche alla nascita delle prime intavolature per lo strumento.
Per quanto riguarda il plettro,
vi sono due tecniche del plettro: una più antica, di polso, con plettro
largo e lungo, ed una più "moderna", con plettro più sottile e tenuto
tra due dita; proprio quest'ultima è l'origine evidente della cosiddetta
tecnica "delle dita pollice e indice" che si sviluppa dalla fine del '400 in poi.
La tecnica del plettro largo (o "di polso")
è viva in occidente fino al XIV secolo, ed è rappresentativa di uno
stile liutistico d'impronta melodica, esattamente come nella musica
araba.
Alla tecnica del plettro sottile seguirà poi in breve tempo ed in modo naturale
la tecnica delle dita, che sostituirà del tutto l'utilizzo di tale accessorio.
Va
detto però che in alcune raffigurazioni la posizione della mano destra
induce a credere che vi sia stato un momento di passaggio, ovvero una "tecnica mista"
in cui il plettro veniva usato, senza tuttavia escludere l'ausilio
delle dita, per ottenere effetti di improvvisazione accompagnata, o
repentini cambi di tono e di tocco, dall'arpeggio allo "sfregato"
accordale. Una tecnica che sopravvisse forse per pochi anni a cavallo
dei secoli XV e XVI, e che oggi alcuni virtuosi tendono a riconsiderare
non solo plausibile, ma addirittura imprescindibile.
Il liuto a Napoli nel 1500
Il liuto fu dai trattatisti — soprattutto napoletani come,
per citarne solo alcuni, Scipione Cerreto e Luigi Dentice —
definito, tra tutti, "lo strumento più completo e perfetto".
La
sua potenzialità ritmica, unita alla dolcezza del suono delle corde
sfiorate dalle dita, lo rendeva adatto ad interpretare con successo
qualunque tipo di repertorio nella musica di tutto il Rinascimento, da
quelli popolari di natura coreutica fino a quelli elevati e colti,
quando non addirittura sacri.
Scrive Scipione Cerreto nel 1608:
Le parole di Cerreto ci
aprono inoltre il campo su un altro interessante aspetto che riguarda
più da vicino la prassi esecutiva dello strumento: egli infatti presenta
il liuto come "il Re degli strumenti musicali ritmici" — non già
di quelli delicati, melodici o armoniosi come si sarebbe potuto ipotizzare.
Il fatto che egli classifichi il liuto
come il migliore in assoluto tra gli strumenti ritmici a corde deve
farci riflettere su quale fosse il suo reale impiego e quale, tra i
numerosi possibili che ancora oggi si dimostra idoneo a produrre, il
suono privilegiato in quell'area e in quell'epoca.
Il Cerreto ci informa ovviamente anche della dolcezza del suono del liuto
e della sua versatilità, ma prediligendo sempre con fermezza il suo aspetto ritmico.
Un
altro dettaglio che induce a pensare che il liuto, quantomeno nella
Napoli di fine '500, venisse suonato prevalentemente per accompagnare
ritmicamente e con modalità più che altro accordale il canto, sono
alcuni passaggi presenti nel testo di alcune villanelle e moresche.
Non
credo di esagerare affermando che la storia di questo strumento, di per
sé abbondantemente sviscerata, è ancora in buona parte da riscrivere
per quanto riguarda molti aspetti di prassi esecutiva quantomeno nei
repertori napoletani, o comunque meridionali nell'Italia del tardo
Rinascimento.
Le origini della poesia per il canto
La
stessa terminologia della costruzione poetica induce a pensare che una
forte affinità o quantomeno una radice comune con la musica sia stata
sempre presente nella mente e nel momento creativo dei poeti — forse non
a caso i capitoli della Divina Commedia si definiscono "canti",
ed il ritmo stesso prodotto dalle rime è un ritmo musicale.
E d'altra parte, Petrarca non ha composto un "Canzoniere"?
Molti termini di forme poetiche in effetti corrispondono esattamente
a quelli di forme musicali come, solo per citarne alcune: ballata, cantare
(poema narrativo popolare di tema eroico-cavalleresco o leggendario, diffuso in tutto il medioevo)
canzona, canzonetta, frottola, inno, lauda, madrigale, mottetto,
pastorella, ritornello, romanza, rondeau, sequenza, stornello,
strambotto, villanella, sonetto.
Ognuno di questi termini
definisce un genere letterario-poetico ed un relativo componimento
musicale, e questi esempi sono soltanto quelli più immediatamente
riconoscibili per l'assonanza che il termine stesso evoca tra musica e
poesia; ma ci sono molte altre corrispondenze tra le due discipline che
fanno riferimento ad una loro comune matrice, come la disciplina
retorica.
Dante Alighieri
La possibilità che la Divina Commedia
fosse originariamente stata pensata per essere anche un poema cantato
in rima, tramandato dai giullari come le saghe epiche degli eroi
dell'antichità portate sulle piazze dai cantastorie, non può essere
esclusa.
Sappiamo con certezza che Dante Alighieri fu musicista e cantore oltre che rimatore;
egli stesso fu con tutta probabilità uno di quegli antichi cantori al liuto
la cui esperienza si basava sulla allora diffusissima figura del trovatore,
il poeta cantore che si accompagnava con il liuto o la viella, e che
ebbe la sua prima origine in Provenza, nel sud della Francia.
Dante fu fervente ammiratore, e in molti casi amico,
di alcuni di quei celebri trovatori che ebbero fortuna anche in Italia.
Nel Trattatello in laude di Dante, il Boccaccio scrive al capitolo XX:
Sempre nella Divina Commedia così descrive Adamo da Brescia,
il falso monetario punito d'idropisia nel XXX Canto dell'inferno:
Pur ch 'egli avesse avuto l 'anguinaia
Tronca dal lato che l'uomo ha forcuto.
Nel celebre poema sono effigiati alcuni tra i più noti musici del tempo,
come ad esempio Arnaut Daniel, italianizzato in Arnaldo Daniello o Daniele.
In vita fu originario di Riberac nella Dordogna (una regione dell'Aquitania);
Dante lo incontra invece tra i morti, nel Canto XXVI del Purgatorio,
dove arde tra le fiamme dei lussuriosi, ed è indicato come il miglior poeta che mai abbia scritto in versi volgari.
Tanto ammirò Dante il suono dei versi e della musica di Arnaut
che lo fece parlare proprio nella sua lingua e con le forme poetico-musicali che gli furono proprie:
quelle "rime petrose" aspre e dure, e talvolta con il "trobar clus",
il parlare o poetare celato, il verso dal senso doppio.
Ho scritto "parlare", ma con ogni probabilità il trovatore Daniel
sembra piuttosto intento a cantare i suoi versi, anche perché il suo
intervento inizia proprio come l' incipit di una delle più famose
canzoni trovadoriche — "Tant m 'abellis I 'amoros pessament" —
composta da Folquet de Marselha.
Bertran de Born
è il secondo dei trovatori che il poeta incontra nel suo cammino:
signore di Hautford nella Guascogna, fu dedito alla poesia cantata ed
alla guerra, occupazioni apparentemente inconciliabili ma che egli
invece seppe amministrare, componendo decine di Sirventes, Coblaz,
Cansons e alcune Canzoni di Crociata.
Nei suoi testi si legge spesso un'esaltazione della guerra e dello scontro fisico
che Bertran, cavaliere e militare in vita, praticò e amò;
ma nel Canto XXVIII dell'Inferno, nel cerchio VIII —
quello dei seminatori di discordia — Dante
lo presenta in una delle più macabre figurazioni infernali: egli
cammina e parla reggendo tra le mani la propria testa mozzata.
Tra gli italiani troviamo Sordello da Goito,
che pur essendo originario del territorio di Mantova prestò i suoi
servigi anche in Provenza oltre che in varie corti italiane e centro
italiane; collocato da Dante nel Purgatorio,
nella sezione più "politica" del suo poema,
Sordello rimane al fianco di Dante e Virgilio dal Canto VI all' VIII,
fungendo quasi da guida supplementare e meritandosi così un notevole rilievo e la meritata fama.
Di lui ci restano circa 42 componimenti.
Ed ancora, Casella,
musico e cantore al liuto nato intorno al 1250 a Firenze (o Pistoia) e
morto forse nella primavera del 1300, secondo quanto lo stesso Dante
dice di lui nel Canto II del Purgatorio in cui compare.
Gli antichi commentatori del poema lo descrivono come un musico molto apprezzato e
grande amico di Dante, anche se non si sa quanto tali notizie dipendano dalla lettura del poema stesso;
nel Codice Vaticano 3214 si trova il suo nome in calce a un madrigale di Lemmo da Pistoia,
poeta del '200, che recita: "Casella sonum dedit" (ovvero "lo musicò Casella",
il che è coerente con l'episodio narrato da Dante).
Il
sommo poeta, incontrandolo, lo prega di eseguire un canto per
confortarlo della fatica del viaggio, cosi il musico intona la canzone
"Amor che ne la mente mi ragiona" dello stesso Dante,
commentata nel III Trattato del Convivio.
Leggenda vuole che Casella fu il maestro di musica del grande poeta fiorentino.
Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio
Ma veniamo al Petrarca, che come si sa fu egli stesso un cantore al liuto,
uno dei primi di cui si abbia notizia certa. Il cronista e biografo fiorentino Filippo Villani
scrisse di lui che suonò la lyra in modo ammirabile,
e che la sua voce fu "sonora, piena di fascino e dolcezza".
Una delle ragioni per cui Petrarca dovette sentire la necessità di suonare il liuto
fu appunto quella pratica del cantare versi con l'accompagnamento di
uno strumento per renderli più musicali: il poeta infatti annotò, nella
copia di lavoro di uno dei suoi sonetti,
che avrebbe dovuto aggiustare e perfezionare la rima di ancora due versi,
e che lo avrebbe fatto meglio cantandoli.
Una seconda importante ragione fu certamente anche quella che egli privilegiava il significato simbolico del liuto
derivante dalle sue origini mitologico-musicali: i poeti del primo
umanesimo scambiarono ed in qualche modo assimilarono, come già
accennato sopra, il liuto alla lyra mitica di Orpheo e Anfione,
e per essi non fu probabilmente tanto importante il fatto di suonare o
essere virtuosi dello strumento, quanto quello di, in tal modo,
assimilare sè stessi e la propria poesia alle figure dei miti musicali.
Petrarca fu vicino ed ebbe corrispondenza regolare con quasi tutti i grandi musici del suo tempo,
primo fra tutti Philippe de Vitry, il grande codificatore della nuova stagione musicale trecentesca
che prese il nome di Ars Nova proprio dal suo trattato del 1322.
Nel testamento del poeta è scritto che avrebbe lasciato il suo liuto ad uno degli amici, Tommaso Bambagi,
affinché potesse cantarci le lodi dell'Onnipotente e non solo canzoni
profane, informandoci in tal modo anche dell'utilizzo dello strumento in
repertori sacri e paraliturgici.
Da notare che, come accadde per Dante, non solo i sonetti di Petrarca
furono musicati (ed ancora lo sono) per secoli dopo la sua morte, ma
anche che egli fu uno di quei poeti le cui liriche furono da subito
messe in musica: la più antica intonazione di un testo petrarchesco —
Non al suo amante — madrigale a due voci di Jacopo da Bologna —
è infatti databile agli anni in cui il poeta era ancora in vita.
Giovanni Boccaccio notoriamente infarcisce l'intera sua opera
più celebre, il Decameron, di musica e di concerti.
Nelle
dieci giornate campestri di giochi, novelle e musica dei dieci giovani
fiorentini, si susseguono altrettante ballate, interpretate con gli
strumenti in voga, tra i quali il liuto di Dioneo che accompagna balli e canti.
Siamo legittimati a questo punto a pensare al giovane Dioneo
come ad uno di quei cantori al liuto fiorentini di fine trecento
che incontrano il nostro interesse in questa sede.
Simone Prodenzani ed altri giullari
Con le sue rime, nella sua più celebre opera Sollazzo e Saporetto,
il Prodenzani lascia intendere una spiccata preparazione musicale:
mettendo in scena il giullare Sollazzo,
esperto cantore e suonatore di chitarra (chitarra italiana, quindi un piccolo liuto),
rende un servizio preziosissimo ai musicologi attuali — che considerano
l'opera un vero tesoro di informazioni — illustrando con dovizia la
performance e il repertorio dell'epoca, nonché il suo arrangiamento e
riadattamento di brani polifonici per strumenti solisti.
Merita una breve menzione anche il sommo e celebre Francesco Landini,
musico e poeta coronato di lauro del quale tutto ben si conosce, s
eppure spesso stupisca la sua passione per il liuto
e per l'interesse che ebbe verso gli strumenti a corde (lui che fu
celebre come virtuoso degli organi), e che lo portò addirittura a
inventare e costruire strumenti — sempre a corde — come la Syrena Syrenarum,
una sorta di liuto con un riporto di corde fissate alla cassa a mo' di
salterio o di arpa (fatto che acquista ovviamente grande rilevanza
sapendo della sua cecità, che lo privò della luce sin da bambino).
Infine, con il rammarico e la certezza di averne tralasciati molti altri di innegabile valore,
faccio breve menzione di quel Francesco di Vannozzo,
curiosa figura di giullare sul finire del '300, cantore al liuto
e suonatore di vari strumenti che divenne famoso nel nord Italia,
ed il cui padre fu amico intimo di Petrarca.
I Cantori al Liuto conclamati: i Maestri
La nobile pratica del cantare al liuto fu appannaggio soprattutto degli umanisti,
che come già detto vi ritrovavano un intero universo mitico e leggendario.
Ma veniamo ora al Cantore al Liuto
vero e proprio, conclamato sul finire del '400 e celebrato per tutto il
secolo seguente. Per ragioni di spazio mi limiterò unicamente a citare
le molte figure storiche ed a tracciare, solo per alcune, dei brevi
tratti biografici e stilistici. In questo primo elenco riporto i nomi di
coloro la cui pratica di cantore al liuto è storicamente accertata da varie fonti,
prima tra tutte il trattato Lucidarium in Musica di Pietro Aaron
del 1545, privilegiando — sicuramente a torto — i nomi di alcuni
personaggi noti anche per essersi distinti in altre discipline, come la
filosofia e la pittura.
Leonardo Giustiniani (Venezia ca. 1383–1446)
Oltre che poeta e musico, fu umanista, uomo pubblico e politico,
che rivesti incarichi prestigiosi a Venezia come quello di Procuratore di San Marco.
L'influenza
che la sua opera esercitò sui contemporanei fu talmente pervasiva che
il genere di canzone veneziana che egli creò prese il nome di "giustiniana".
Erano canzoni dal tema prevalentemente amoroso che egli usava cantare
in elegante dialetto veneziano — accompagnandosi con il suo liuto
— caratterizzate da un particolare modo di abbellire la melodia, uno
stile praticamente scomparso poiché veniva improvvisato dagli interpreti
nel momento dell'esecuzione, cosa che andò ad alimentare il mito del
cosiddetto "segreto del quattrocento", ovvero quell'insieme di
pratiche musicali, soprattutto legate al canto, che andò perduta in
quanto mai tramandata in scritti. Tuttavia alcuni musicologi hanno
recentemente identificato, in alcune frottole del libro sesto di Ottaviano Petrucci,
alcuni passaggi che sarebbero da far risalire al tratto stilistico proprio della giustiniana.
Serafino Ciminelli Aquilano o dall'Aquila (L'Aquila 1466–Roma 1500)
Fu responsabile di un importante rinnovamento nel genere del canto accompagnato al liuto:
le novità che introdusse furono dovute ad una maggiore e più pregnante
fusione tra il testo della parola cantata e la parte strumentale, e con
molta probabilità anche allo stile liutistico. Questa notizia è
riportata dall'umanista Paolo Cortese, che lo vide esibirsi.
Difficile ricostruire i tratti del suo stile liutistico, mentre è noto
che il cantato era improntato alla più grande dolcezza.
Il liuto
negli anni in cui egli si mosse era prevalentemente suonato col
plettro, il che significa a grandi linee che si suonava una linea
melodica, ma, come già detto, vi fu una tecnica mista di plettro e dita,
che lasciava agli esecutori anche la libertà di suonare passaggi
accordali, ad esempio insieme ad una voce di tenore. E' lecito pensare
che lo stile di Serafino sia da ricollegare proprio a questa tecnica perduta,
che sopravvisse apparentemente solo per pochi anni.
Certo
è che la sua influenza e la sua fama furono enormi: egli frequentò
varie corti tra cui Napoli, Urbino, Mantova, venendo a contatto con i
più grandi letterati e umanisti del suo tempo, dei quali, si può ben
dire, egli fu uno degli esponenti di maggior spicco.
Autore delle rime che poneva in canto, tra le quali sopravvivono epistole amorose in rima,
tre egloghe a carattere pastorale, due atti (l'Oroscopo e l'Orologio),
una Rappresentazione allegorica della voluttà
ed un'altra dal titolo Virtù e fama
che venne rappresentata tra il 1495 e il 1497 presso la corte di Mantova,
oltre a numerose rime di vario tipo, come strambotti, sonetti e capitoli ternari.
Pietrobono Bursellis o del Chitarrino (Ferrara? Bruxelles? 1417–Ferrara 1497)
Sebbene egli sia generalmente noto come virtuoso dello strumento —
quel chitarrino o chitarra italiana da cui ricavò il suo pseudonimo —
e come insegnante di musica, passando alla storia per aver insegnato l'arte del liuto
a personaggi eccellenti dell'epoca, tuttavia egli fu anche cantore, e si accompagnava con la cetra
mentre intonava poemi in versi ispirati a celebri storie d'amore di
personaggi del suo tempo, trasformandoli così in personaggi
semi-mitologici. Così riferisce Antonio Cornazzano
nel Canto VIII del suo poema Sforziade, dove si trova la Laudes Petri Boni Cytariste,
lode in versi la cui unica copia oggi conservata a Parigi.
Nel De Excellentium virorum principibus, altro poemetto del Cornazzano,
il Bursellis viene descritto come cantore a liuto oltre che liutista.
La celebrazione della fama di Pietrobono,
già in vita, e soprattutto dopo la sua morte, raggiunse toni
encomiastici: molti poeti e umanisti scrissero poemi in sua lode, ed
ebbe l'onore di essere addirittura effigiato in due monete ferraresi.
La sua tecnica sullo strumento fu prevalentemente quella del plettro,
ornamentando la parte superiore di brani polifonici nell'esecuzione dei
quali si faceva accompagnare da un altro liutista, che lui stesso
definiva "il mio tenorista" cioè addetto a suonare parti di tenor,
le parti di fondamento delle composizioni a più voci. Il Tinctoris
lodava le sue "superinventiones", che con ogni probabilità erano
"improvvisazioni" di carattere strumentale scaturite dalla sua fantasia o
derivanti da melodie popolari, adattate poi a tutte le possibilità
tecniche offertegli dal liuto. Il suo stile sopravvisse per molti anni
dopo la sua morte, fino a perdersi nell'oblio della tradizione non
scritta; ma si può tentare di ricostruirlo in base alle varie
sopracitate lodi, che ne descrivono minuziosamente i tratti salienti.
Hayne van Ghizegnem (ca. 1447–1497)
Compositore del nord Europa, ereditò lo stile del Maestro Ockeghem.
Di lui, il poeta Guillaume Cretin ebbe a scrivere,
nel poema in lode della morte del grande compositore Ockeghem,
che cantò sul liuto il mottetto Hut Heremita Solus,
addolcendo gli animi degli astanti prostrati nel dolore,
testimonianza che consolida l'ipotesi che il liuto
accompagnasse anche la musica sacra e liturgica.
Tra gli altri più noti ed importanti cantori al liuto della prima generazione,
dei quali molto si conosce, vi furono Francesco Bossinensis, Marchetto Cara,
Bartolomeo Tromboncino, Cosimo Bottegari; alla seconda generazione
appartennero invece Ippolito Tromboncino, Scipione Cerreto, Giacomo Gorzanis,
Giulio Caccini, Bartolomeo Barbarino, Bartolomeo Gazza.
Filosofi, pittori e Principi: i Cantori al Liuto per diletto
Marsilio Ficino
(Figline Valdamo 1433–Careggi 1499)
Figlio del medico personale di Cosimo de' Medici,
fu un celebre filosofo e umanista, oltre che traduttore di testi
latini. Di lui si sa anche che, in virtù di quel neoplatonismo dilagante
del quale fu un fondamentale profeta e portavoce, amava dilettarsi di
musica, come tutti gli studiosi suoi contemporanei.
Fu amico di Poliziano e di Pico della Mirandola,
e sono fondamentali i suoi scritti sulla musica — soprattutto alcune
lettere tra le quali quella del 1484 sui principi della musica
indirizzata a Domenico Bentiveni, membro dell'Accademia Platonica Fiorentina
in cui si ripropone spesso la relazione tra macro e microcosmo (fu
anche astrologo e interessato agli aspetti della magia) nei concetti
pitagorici e tolemaici delle meccaniche celesti. Amava intonare versi
accompagnandosi con la sua orphica lyra, forse un suo particolare liuto
o altro strumento a corde, nella cui armonia poteva ritrovare gli antichi precetti dell'armonia universale.
Pico della Mirandola
(Mirandola 1463–Firenze 1494)
Intellettuale neoplatonico vicino a Ficino, girò l'Italia in una vita breve ed avventurosa.
Non fu immune al fascino esercitato dalla musica, e come riferisce Walker
nel suo studio Le chant Orphique de Marsile Ficin, cantava le sue poesie "ad lyram".
Federico da Montefeltro – Lorenzo de' Medici – Leonello d'Este
Il
binomio sovrano/musica trova in questi tre Principi e Duchi
rinascimentali la sua più chiara espressione, accostamento che risponde
all'ideale umanistico di harmonia mundi.
"Il principe deve assomigliare al musicista" scriveva Ficino nella sua Politica,
"deve saper unire le voci gravi a quelle acute per fondare il suo regno sull'armonia".
Sembra di scorgere in queste affermazioni la figura di Federico da Montefeltro
e del suo armonioso governo, lui che si distinse tra gli allievi di Vittorino da Feltre
per le sue doti di musicalità, lui che possedeva una voce — come ci informa Vespasiano da Bisticci
nella sua biografia — "gioconda e canora", ed eccelleva in quella nuova
pratica così in uso di accompagnarsi con uno strumento a corde (forse
proprio il liuto, visto l'amore per questo strumento testimoniato
nelle decine di rappresentazioni che volle nelle decorazioni del suo
palazzo).
Lorenzo de' Medici amava musicare ed eseguire egli stesso,
accompagnandosi al liuto, le rime per le quali è ancora oggi ben noto.
Leonello d'Este fu anch'egli un cantore al liuto oltre che uno dei più
grandi mecenati e committenti musicali della sua epoca.
Donato Bramante – Leonardo da Vinci
Poco si sa del Bramante
poeta: ci sono rimasti di lui diversi sonetti, di tema amoroso e scher zoso,
scritti mentre era a Milano prima del 1499, le sue rime rivelano
lo sviscerato amore per Dante. E meno ancora si sa della sua
attività — sebbene per diletto — di musico e cantore: il Vasari afferma
infatti che il celebre architetto amava recarsi nelle taverne con la sua
lira (un liuto?) per cantare in pubblico i suoi versi.
Leonardo, oltre che musico e cantore fu anche progettista di strumenti,
a lui infatti si deve la costruzione di una strana lira da braccio,
la cui cassa armonica era ricavata da un cranio di cavallo.
Altri cantori al liuto citati da Pietro Aaron nel Lucidario in Musica – libro IV,
furono: Conte Ludovico Martinengo, Messer Ognibene da Vinegia, Marc 'Antonio Fontana
Arcidiacono di Como, Francesco da Faenza, Angioletto da Vinegia, Jacopo
da San Secondo, Camillo Michele Veneziano, Paolo Milanese.
Le "Donne a Liuto"
Una menzione particolare meritano poi le cosidette Donne a Liuto,
ovvero il corrispettivo al femminile dei cantori al liuto, così come le definisce Aaron.
Erano cantanti virtuose, improvvisatrici e liutiste, ed al pari dei
loro colleghi al maschile entrarono spesso nelle dinamiche dell'alta
società e ne fecero pienamente parte grazie alle loro doti musicali. Tra
le tante artiste, di molte delle quali ci restano soltanto i nomi,
spiccano le personalità di:
Virginia Vagnoli (Pienza 1540?–?)
Figlia di Pietro, liutista, fu l'astro più celebrato della corte roveresca allorché
il Duca di Urbino Guidubaldo II l'assunse nel 1564, insieme ad altri musici compositori
del calibro di Costanzo Porta e Paolo Animuccia,
per il servizio musicale della sua cappella privata. Virginia si esibiva alla corte di Guidubaldo
nella segretezza e l'implicita preziosità delle manifestazioni musicali
roveresche private o concesse alla presenza di qualche ospite illustre,
ma sempre nell'irripetibile estemporaneità della performance
improvvisativa resa tangibile dalla forma del canto solistico
accompagnato, che fu soprattutto a Urbino e Pesaro sempre ricercato e praticato.
In una lettera del Card. Giulio della Rovere del 1567 si legge
Lodovico Agostini, cortegiano pesarese, la dipinge nelle sue Giornate Soriane
impegnata a "cantare sul liuto alcuni madrigali di Alessandro Striggio".
A lei furono dedicati inoltre poemi in rima ed encomi, che sottolineano
sia la sua eccellenza che la novità ed eccezionalità della sua figura
professionale.
Irene da Spillinbergo (Spillinbergo 1540–1559)
Le notizie sulla sua vita ci sono tramandate da Dioniso Atanagi, cortegiano e giullare della corte urbinate sul finire del XVI secolo.
Il personaggio che ne traspare possiede un incanto ed un vigore unici: si trattò di un enfant prodige,
infatti nella sua brevissima esistenza (mori nel 1559, a soli 19 anni)
riuscì comunque a dedicarsi con incredibile successo alla musica, alla
poesia e alla pittura. Nacque nel castello di Spillinbergo presso Udine
nel 1541, e ricevette la sua formazione nell'ambiente veneziano.
Avviata allo studio del canto da Bartolomeo Gazza,
(stimatissimo cantore al liuto veneziano, citato da Aaron), s
i dimostrò ben presto incredibilmente dotata:
in pochissimo tempo pervenne a una conoscenza tale che "cantava sicuramente a libro ogni cosa".
Successivamente si dedicò alla nobile e raffinata pratica del cantare a liuto,
dove eccelse ben presto, tanto che Atanagi afferma:
Irene fu anche pittrice; apprendista del grande Tiziano egli,
nonostante accettasse malvolentieri discepoli, la elesse sua allieva prediletta.
Altre "donne a liuto" citate da Aaron: Antonia
Aragona di Napoli, Costanza da Nuvolara, Lucretia da Correggio, Ginevra
e Barbara Pallavicina, Isabella Bolognese, Susanna Ferra ferrarese,
Franceschina e Marieta Bellamano, Helena Vinitiana.