Zaccaria da Teramo
Gruppo Mensura Musicae





Cassa di Rispiarmo della provincia di Teramo
RCA 2G8KY-19714/15

1978





A
1. Ciaramella  [5:58]
2. Nuda non era  [4:47]
3. Gnaff'a a le guagnele  [2:17]
4. Et in terra pax  (Gloria Micinella)  [2:44]
5. Un fior gentil  [6:35]

B
6. Ad ogne vento  [3:57]
7. Deus deorum  [3:54]
8. Amor nè tossa  [4:56]
9. Et in terra pax  (Gloria Fior gentil)  [7:18]





GRUPPO MENSURA MUSICAE
Claudio de Angelis

Alessandr Bresciani Alvarez, soprano
Maria Vittoria Mastrostefano, contralto
Mario Bolognesi, contratenore
Cesare Carloni, tenore
Giuseppe Barbirotta, baso, percussioni
Katinka Cassola, fídula, flauto tenore e basso
Anna Penna, viella, flauto soprano e contralto
Fernanda Guglielmotti, cromorno, flauto soprano e tenore
Leonardo de Angelis, liuto



La memoria di Zaccaria da Teramo è riaffiorata all'attenzione dei Teramani con la intitolazione di una via cittadina al suo nome che da Sindaco proposi nel 1961 alla commissione di toponomastica.
Altrove, nel passato e in tempi recenti, se ne sono interessati più volte illustri musicologi, italiani e stranieri, ma a Teramo — che se ne sappia — dopo il Vescovo Giannantonio Campano, il Tulli e il Palma, non vi sono stati altri autori che se ne siano occupati, né, prima di ora, altra iniziativa che ne abbia riproposto lo studio per una più approfondita conoscenza.
Sulla vita non si è riusciti a saperne di più di quanto ci avessero informati il Necrologio Aprutino e il Campano nella sua epistola all'Ammannati.
Sull'opera, invece, — lacunosa, frammentaria, dispersa — si è compiuto il tentativo di ricostruirne una linea, di ricomporne una trama, di darne una interpretazione la più autentica possibile.
Il disco ne è risultato un compendio stupendo: una rivelazione travolgente. Al Maestro Claudio De Angelis, che è stato l'interprete intelligente della volontà dell'Istituto e l'anima appassionata di un lavoro che onora la cultura italiana, la più viva gratitudine di Teramo.

Carino Gambacorta
Presidente della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo









Nella prima metà del sec. XV, la città di Teramo che gli storici locali di poco posteriori definirono la Firenze del Regno, pur in dimensioni ovviamente provinciali, ebbe, in armonia con gli spiriti nuovi del Rinascimento, un notevole fiorire di pensiero e di opere d'arte e di artigianato. A non voler considerare le piccole fabbriche tessili, gli orafi, gli artigiani del ferro ed altri, come, ad esempio, gli armaioli, l'Università teramana diede un saggio di perizia giuridica con la stesura, nel 1440, degli Statuti, ma vide anche insigni autori ed artisti operare per abbellire le chiese e la città (basti pensare, solamente, al Polittico e al Paliotto, entrambi conservati nella Cattedrale).

Anche la musica ebbe un suo grande rappresentante, ma, purtroppo la sua biografia, nonostante le ricerche certosine di molti studiosi, presenta non soltanto delle incertezze, ma addirittura rimane misteriosa ed inafferrabile, quasi a voler conferire maggior fascino al nostro autore.

Infatti, perfino l'identificazione di “Zaccaria” non è assolutamente chiara, almeno dal punto di vista della certezza scientifica, anche se la tradizione locale non ha dubbi suite sua nascita teramana: invero, nelle fonti musicali dell'epoca, la sua persona e il suo nome si confondono con quelli di “Nicolaus Zacharie”, dl Antonio Romano e di un certo “Magister Zacharias”, il che, in quest'ultimo caso, non contribuisce affatto a diradare i dubbi che riguardano la sua vita.



Il Vescovo Aprutino G. A. Campano (1429-1477) ricorda uno Zaccaria di Teramo che si era procurato gran fama come compositore di canti popolari. Per questo i Teramani avrebbero coltivato la musica quasi come una eredità lasciata loro dagli antenati: “student in primis Musicae, servato more maiorum, a quibus illustratam praedicant. Zacharum Musicum suum dicunt, ostendunt domos, praedia, nepotes, etiam discipulos eius, inventa pro oraculis habentur...”.

Da quanto ne dice il Campano sembra essere vissuto a cavallo dei secoli XIV-XV. Il Palma fece accurate ricerche per avere notizie più precise, ma riuscì a reperire soltanto I brevi cenni di una vecchia necrologia: “Zaccaria Teramnensis, vir apprime doctas in manicle, composait quamplures cantilenas, quae nostra aetate per Italiam cantantur et Gallia et Germanis cantoribus in maxima veneratione habentur: fuit statura corporis parva et in manibus et in pedibus non nisi decem digitos habuit et tamen eleganter scribebat. In curia romana principatum obtinens magna stipendia meruit” (Di Bernardo).

Un'altra fonte, contenuta in un documento conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, ci parla, sia pure indirettamente del Nostro: si tratta di una bolla dell'anno 1391 indirizzata “Magistro Antonio dicto Zacharie de Teramo laico licterato Aprutinae diocesis”.

Il Savini ritiene incontestabile l'identificazione di questo Zaccaria con il celebre musico di cui scrissero, sia pur vagamente, altri due storici locali, e cioè il Muzii e il Palma.

D'altra parte, fu chiara la fama del nostro autore se il suo nome, Antonio Zachara o meglio “Magister Antonius”, Çachara de Teramo compare, unitamente con suoi pezzi musicali, nel Codice lucchese ed anche nei «tre frammenti pergamenacei, che furono usati a custodia di protocolli nella Biblioteca Comunale di Perugia» ove si parla di “Magister Antonius Cachera de Teramo” (Della Corte-Pannain).

Infine, un'altra preziosa testimonianza ci è offerta da due «codici manoscritti di origine italiana (il n. 37 conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Musica di Bologna e il VI H,15 della Biblioteca Estense di Modena)» in cui si trova la “chanson” a rappresentata da pochi musicisti italiani fiamminghizzanti, come Matteo da Brescia... (e) Zacaria da Teramo» (Abbiati).

Come si vede, le fonti sono molto scarse e non ci permettono di stabilire con sicurezza una qualche notizia rilevante che riguardi il nostro autore: tuttavia, se accettiamo la affermazione del Pirrone secondo il quale Antonio Zacara da Teramo ebbe rapporti con il papa Gregorio XII e le sue ultime composizioni, sia quelle sacre che quelle profane, dovettero risalire a date anteriori al 1430, non ci rimane che concludere, con l'Aurini, sia pur con il beneficio derivante da ipotesi, che egli fu maestro di Cappella (?) con il nomignolo di Zaccaro o il piccolo. E' lecito, comunque, fare un'altra notazione: dagli elementi in nostro possesso possiamo affermare che il ricordo di Zaccaria era ancora molto vivo circa quaranta anni dopo le sue ultime composizioni che, come confermano anche le fonti musicali, erano molto ben conosciute ed apprezzate pure all'estero, per la notevole qualità della musica e la raffinatezza dello stile.

Sono tutti elementi che costituiscono per noi, in assenza delle font, il punto di riferimento «più sicuro» nel tentativo di delineare, almeno, la personalità artistica del «nostro» Zaccaria.

E' uno strano destino il suo: egli è rimasto fino ad ora poco noto, eppure, unitamente con F. Landini, fu uno degli Italiani che, per primi, ottennero un posto di rilievo e una certa notorietà nell'ambito della musica europea. Sappiamo che Zaccaria fu il rappresentante di una “Ars nova” che aveva concluso quasi il suo ciclo e la sua funzione storica, eppure non mancano nella sua opera pezzi che si proiettano, tecnicamente e stilisticamente, a superare il tempo in cui viveva.

Scrive il Pirrottae: «dal lato musicale la fisionomia di Zaccaria ha una certa sua originalità e indipendenza. Le composizioni profane lo inquadrano in una tendenza che si proponeva evidentemente di respingere la servile imitazione dell'arte francese documentata dal repertorio dei codici Chantilly e Modena Estense lat. 568. Ma anche in ciò egli si differenzia da altri compositori, tra i quali il Ciconia, che si rifecero a modelli madrigaleschi del secolo precedente; egli si affida invece ad una immediatezza che mira a far presa direttamente sull'ascoltatore con l'estrosità magari sensuale dell'invenzione, senza preoccupazioni di stile o di sottigliezze tecniche».

Di questa musica furono scoperte testimonianze rilevanti nel 1935 (a Perugia, da parte del Cecchini) e nel 1939 (a Lucca, da parte del Mancini).

«Recentemente (ricordiamo che questa nota del Verlengia fu scritta negli anni '50) Federico Ghisi ha studiato le composizioni rinvenute a Perugia e ne ha rivelato l'importanza». Egli accertò trattarsi «di frammenti di un codice musicale della “Ars nova” italiana, che vanno riferiti alla prima metà del Quattrocento e che contengono, insieme con alcune composizioni del Maestro Giovanni Ciconia, tre altre composizioni del magister Antonius Zachera de Teramo. Le composizioni del maestro teramano consistono in tre ballate: “Un flor gentil m'apparse”, la prima; “Deus deorum Pluto or te ringrazio”, la seconda; “Amor né tossa non se pò celare”, la terza, ballate che il prof. Ghisi analizza particolarmente, e che, aggiunte alle composizioni del codice Mancini di Lucca e a due altre riportate, la prima in un codice di Oxford dal titolo “Nuda non era preso altro vestito”, e la seconda in un codice di Trento “Patrem omnipotentem”, rappresentano quanto si conosca finora di Antonio Zaccaria. Ma la sua musica, offre un interesse, che permette di assegnare al Maestro un posto significativo nel gruppo dei musicisti nazionali, ponendolo accanto ai maestri più in vista del suo tempo, come Giovanni Ciconia, Nicola Zaccaria, cantore popolare, e poi Giovanni da Genova, Antonello e Filippo da Caserta, Corrado da Pistoia, Bortolino da Bologna» (Verlengia).

“Ciaramella” è una ballata di tre strofe con un ritornello di un verso solo (è contenuta nel codice di Lucca). Contrariamente alla struttura normale della ballata musicale, sull'ultimo verso di ciascuna strofa, vale a dire sulla «volta», non viene ripetuta la musica del ritornello, ma figura una «nuova energica frase musicale». Altro elemento interessante, dal punto di vista musicale, è l'ampia articolazione melodica con la quale Zacara presenta il ritornello, che si estende per ben sedici misure. Diversamente da altri brani accolti nel disco che si distinguono per le lunghe sezioni melismatiche e per ampi tratti vocalizzati, in “Ciaramella” invece le tre voci presentano un carattere per lo più sillabico, vale a dire che ad ogni nota corrisponde una sillaba del testo, e procedono spesso insieme, almeno nel ritornello, ed omoritmicamente.

II testo e la musica di questo brano si distinguono per una patina del tutto particolare, per una coloratura «popolare» ed un carattere marcatamente «rustico» (confermato sul piano musicale anche dall'effetto di cornamusa che Zacara riesce ad ottenere in alcune misure per mezzo di particolari ritmi e di composizioni armoniche di quarta e quinta) nei quali la vera ed autentica matrice si confonde con la ricerca di una sofisticata, raffinata ed emblematica stilizzazione. Il gusto popolaresco del testo emerge oltre che dal lessico, anche dal contenuto e dalle espressioni allusive ed inoltre «dal doppio senso del termine “ciaramella”, che indica anche oggigiorno nel linguaggio popolare abruzzese lo strumento o una ragazza leggera, una fraschetta» (Pirrotta).

Lo stesso tono «popolaresco» si trova nella ballata “Un fior gentile”, una ballata a tre voci conservata nei frammenti di Perugia, appartenenti al codice che si trova attualmente nell'Archivio di Stato di Lucca. Cosi si esprime Federico Ghisi su questa ballata: «Le rime musicate nel terzo foglio del manoscritto di Perugia accusano, senza dubbio, origine popolaresca e mostrano le caratteristiche della ballata quattrocentesca, fattasi più agile e più simile alla struttura delle canzonette a ballo o frottole fiorite nella seconda metà del XV secolo. (...) L'ignoto rimatore simboleggia la donna nel “fior gentil” mediante il motivo del sogno o dell'apparizione e non si sazia di esprimere la sua passione con la ripetizione di alcune parole convenzionali di stampo popolaresco. Significative appaiono a questo proposito le rime intonate da Antonius Cachara nel Codice Mancini (Lucca) le quali rivelano quanta predilezione avesse questo maestro teramese (sic!) per simile repertorio di maniera dove le virtù femminili sono esaltate attraverso allegorie floreali». Sul piano musicale la ballata “Un fior gentil” si distingue fra l'altro per quel suo magnifico inizio a canone costruito su un'ampia melodia molto bella ed espressiva.

Di parere contrario sembra essere invece Gilbert Reaney il quale ritiene che un “Fior gentil” e “Rosetta” sono indirizzate in realtà alla Vergine Maria anche se «in termini scarsamente rispettosi». Lo stesso atteggiamento tendente a mascherare deliberatamente la sua intenzione Reaney riscontra anche nella ballata “Deus Deorum, Pluto, or te rengratio” (una ballata a due voci, anch'essa nella silloge perugina): «Chi è Caco Radamanto che Zachara desidera servire invece di Plutone? E' un principe reale o l'autore di questo misterioso testo che esprime semplicemente il suo ritorno a Dio dopo aver avuto abbastanza da fare con il diavolo». Federico Ghisi, da parte sua, osserva nel testo di questa ballata «la presenza di farciture latine, unitamente ad espressioni verbali d'ispirazione satanico-cabalistica. Una così bizzarra preghiera di ringraziamento a Plutone, re dei demoni, appartiene probabilmente al genera di erudizione nella lirica amorosa quattrocentesca — “lamenti” e “disperate” — irto, per l'appunto, di latinismi e di paurosi e barbari nomi, tolti dalla mitologia infernale».

Il tono moraleggiante si unisce invece al registro popolaresco nella ballata “Amor né tossa”, un brano a due voci conservato sempre nei frammenti di Perugia. «Il gusto popolaresco perdura anche in questa ballata in versi sciolti, per quanto rimane del testo, mantenendo carattere sentenzioso e moraleggiante. Il tentativo di onomatopea imitativa nella poesia non è nuovo e già lo troviamo espresso nel madrigale del Sacchetti dove si ripete per ben tre volte il belato dell'agnello. Siffatta tendenza imitative e per questo rappresentativa appare insita nella natura poetico-musicale del popolo italiano e la ritroviamo ovunque a ravvivare con il vocio delle strade e con altri esotismi locali, la caccia, i carnasciali di piazza, la villanelle alla napoletana e la commedia dell'arte nel madrigale drammatico cinquecentesco» (Ghisi).

Un linguaggio a volte allusivo, a volte moraleggiante osserviamo nella ballata trilingue (italiano, latino e francese) a tre voci, conservata nel codice di Lucca, “Je suy navré - Gnaff'a le guagnele” indirizzata al “dous amy” e “biau sir” (“dolce amico” e “bel sire”) che probabilmente è uno dei patroni di Zachara. Il poeta loda Firenze, le fanciulle e le arti liberali, che sole possono dare agli uomini la prudenza, parola che appare frequentemente in ambedue i testi. Nino Pirrotta scrive che «l'oscurità furbesca e allusive è del resto caratteristica quasi costante dei testi posti in musica da Zacara da Teramo. Nel caso presente dal guazzabuglio trilingue risulta soltanto una certa simmetria di parole (se non di concetti, che ci sfuggono) fra il testo francese delle due prime voci e quello misto di latino e di italiano della terza voce. L'allusione a Firenze attraverso l'anagramma contenuto nel secondo verso del testo principale, parrebbe confermata dall'accento vernacolare tipicamente fiorentino del secondo testo». Un tale gusto per l'oscurità burchiellesca o per l'allusione ridanciana è più sfumato invece nella ballata a tre voci “Ad ogne vento volta come foglia” (anch'essa nel codice di Lucca) nella quale prevalgono toni moraleggianti, sentenziosi ed epigrammatici e che sembra racchiudere tutta la filosofia di Zachara, fondamentalmente pessimistica, espressa in toni talvolta anche ironici, sarcastici e satirici.

Anche il ritmo musicale assume volentieri «un piglio rude ed energico quasi di danza popolaresca, cui concorrono la predilezione per le combinazioni di voci gravi e un certo sapore quasi strumentale di brevi incisi che marcano fortemente il tempo, il che dà una impressione di “rusticità saporosa”» (Pirrotta).

Ben poco si può dire sul brano “Nuda non era” il cui testo ci è giunto incompleto, limitandosi ai due versi del ritornello ed ai primi due versi delle strofe. Sembra prevalere il tono pessimistico e moraleggiante, espresso specialmente dai versi: «Se per gran pianto voltasse la rota, / gyamay non finirla di lagrimare», nei quali si uniscono il concetto del mutare della fortuna con quello del pianto, della disperazione e del dolore. Il grande storico Huizinga nel suo volume sull' “Autunno del Medioevo” trae delle conclusioni che illustrano molto bene il significato probabile di questo testo musicato da Zachara: «Fra dolore e gioia, fra calamità e felicità, il divario appariva più grande (...). Di fronte all'avversità e all'indigenza c'era minore possibilità di mitigare di oggi giorno; esse si presentavano più gravi e più crudeli (...). Bisogna rendersi conto di quella emotività, di quella suscettibilità al pianto e alla conversione e di quella sensibilità, se si vuol comprendere quali fossero il colore e l'intensità della vita di allora».

Passando ora ai due pezzi sacri, o più propriamente liturgici trattandosi di brani per la Messa — il «Gloria “Fior gentil”» ed il «Gloria “Micinella”», — c'è da osservare innanzi tutto che ambedue si richiamano a composizioni profane preesistenti il «Gloria “Flor gentil”» si basa sulla musica della ballata “Un Fior gentil”, già vista precedentemente; il «Gloria “Micinella”» deriva invece da un pezzo profano che non è stato possibile identificare (oppure non giunto fino a noi). La pratica del «travestimento spirituale» ha origini molto antiche e consiste nell'adattare melodie di canzoni profane a testi religiosi o liturgici, quali ad esempio, le sequenze, le laudi, le “chansons” spirituali e parti della Messa (come nella futura “Missa parodia”). La Chiesa, come è noto, nel corso della sua lunga storia si è appropriata molto spesso di materiali culturali appartenenti ad altre «culture», ad altri sistemi semiologici e comunicazionali, e ad altri repertori con molteplici e svariate finalità: nel caso della musica, l'utilizzazione di melodie profane in voga e molto conosciute ha come scopo principale quello di captare il maggior numero di persone facilitandone l'incontro con la preghiera cantata o con l'azione liturgica attraverso il veicolo di una musica alla portata di tutti in quanto, appunto, a tutti nota.

La tecnica musicale della «parodia» prescelta da Zacara è molto diversa da quella che troviamo impiegata nella “missa parodia” tardo-quattrocentesca e cinquecentesca di stampo fiammingo, nella quale il nesso con il modello profano è di tipo costruttivo, e caratterizzata tra l'altro dal fatto che l'impiego nella voce del “tenor” di una medesima melodia derivata da una canzone profana serve come elemento unificatore di tutta la messa. Zacara opera in modo del tutto diverso, inserendo in blocco nella composizione liturgica alcune sezioni del profano preso a modello ed intercalandole con parti del tutto nuove e libere dal punto di vista musicale o elaborate da spunti melodici del modello, in funzione di collegamento.

«Le limitazioni della “parodia” di Zacara — scrive Nino Pirrotta — e la probabilità che essa sia una sua trovata personale non possono tuttavia farci escludere la possibilità di una effettiva connessione storica con la “parodia” dei tempi più prossimi a noi. La mancanza di elaborazione contrappuntistica dimostra solo come Zacara resti — e non poteva essere altrimenti — nei limiti del linguaggio del suo tempo».

Come ben sanno gli studiosi, la tradizione manoscritta della musica medievale è, purtroppo, piuttosto lacunosa: ci riferiamo alla costatazione del fatto che numerosi pezzi sono mancanti di alcune parti e, pertanto, anche per quanto ci riguarda, è riuscito pressoché impossibile, nonostante vari tentativi, restituire completamente il fascino del nostro autore. Basta infatti citare, a mo' di esempio per tutte, solo tre difficoltà: il «contratenor» è incompleto nella seconda parte di “Amor né tossa”, si interrompe dopo le prime battute di “Ad ogne vento”, mentre la «voce superiore» manca completamente in “Fior gentil”. L'esecuzione di detti pezzi ha richiesto perciò interventi che tendano ad integrare le parti mancanti: l'operazione, indubbiamente delicate, ha imposto e raggiunto come obiettivi, almeno speriamo (ché queste erano le nostre intenzioni) la massima discrezione, il più accurato rigore stilistico e musicale, in relazione con la personalità dell'autore, il rispetto preciso dell'estetica del tempo e la considerazione più puntuale possibile delle intuizioni precorritrici di Zaccaria.

Risulta infine evidente come il carattere lacunoso dei manoscritti non si manifesti soltanto nella mancanza di alcune parti, ma assuma un significato più ampio qualora si consideri il fatto che la versione tramandataci tendeva, probabilmente, a costituire unicamente una traccia per l'esecutore, da completare ed arricchire con altri elementi sulla base di più numerosi parametri. Ci limitiamo, a questo proposito, ad alcune considerazioni: dalla tradizione manoscritta nulla o quasi nulla possiamo conoscere circa il numero degli esecutori, gli strumenti prescelti, le voci, la disposizione e l'assegnazione delle varie parti agli esecutori (nel senso che non siamo certi, con assoluta precisione, del fatto che alcune parti fossero affidate alle sole voci, agli strumenti o ad entrambi); nulla infine sappiamo delle alterazioni e dell'interpretazione esatta. Pertanto, consapevoli di queste difficoltà derivanti anche dalla tradizione, abbiamo ritenuto opportuno integrare alcuni dei brani incisi aggiungendo delle parti affidate agli strumenti, scritte ex novo sulla base, però, dei criteri stilistici suesposti. Teniamo a precisare infine come il materiale melodico e ritmico delle parti aggiunte sia stato tratto, scrupolosamente, dalle voci preesistenti e sia stato inserito ed elaborato cercando di interpretare nel modo e nella misura più esattamente possibile, il pensiero e le intenzioni dell'autore.

Ricordiamo, infine, che della produzione di Zaccaria restano manoscritte 4 “et in Terra”: due a tre e due a quattro voci; 4 “Patrem”: due a tre e due a quattro voci; 8 “Ballate”: tre a due e cinque a tre voci; 1 “Madrigale”: a due voci.

C. CAPPELLI - O. DE ANGELIS - A. ZIINO