medieval.org
Edizioni Musicali III Millennio CDA 0185
2003
Ensemble Chominciamento di Gioia In vinea mea Gianfranco Russo
1. Bacche bene venies [4:20]
Carmina Burana, sec. XIII
CB 200
canto AT AP BS RC FG GM LT · coro AT AP BS RC FG GM —
salterio, arpa, vielle LP GR, flauto dritto LL
2. Deficiente vino [0:35] ms. I-Pa 2788, Perugia, sec. XIV
canto · coro AT AP BS
3. Como Deus fez vynno [5:31]
Cantigas de Santa Maria, sec. XIII
CSM 23
canto AT · coro AP BS RC FG —
saz, arpa, viella GR, flauto traverso, tamburo a cornice
4. Bon vin doit [2:05] Roman de Fauvel, sec. XIV
canto AT AP BS · coro AT AP BS RC FG GM LT —
arpa, viella LP, symphonia, flauto traverso, campane EF
5. Alte clamat Epicurus [3:45]
Carmina Burana, sec. XIII
CB 211
canto AT AP · coro AT AP BS RC FG GM LT —
liuto, salterio, arpa, flauti dritti LL GR
6. L'autre ièr cuidèi aver druda [3:01]
chanson trobadorica, anonimo, sec. XII
canto AP —
arpa, viella LP, flauto dritto LL, tamburo a cornice
7. Ben pod'as cousas [4:45]
Cantigas de Santa Maria, sec. XIII
CSM 73
canto AT BS · coro AT AP BS —
liuto, salterio, arpa, viella GR, flauto traverso
8. Sacerdos in aeternum [0:36] ms. I-Pa 2799, Perugia, sec. XIV
coro AT AP BS
9. Procurans odium [4:06]
Carmina Burana, sec. XIII
CB 12
coro AT AP BS RC FG GM LT —
vielle LP GR, tabor, flauto traverso
10. Vinum bonum [4:07] ms. Egerton, sec. XIII
coro AT AP BS RC FG GM LT —
arpa, vielle LP GR, flauto dritto LL, campane EF
11. Ges de disnar [4:17] Bertrand de BORN, sec. XII
canto AT —
arpa, vielle LP GR, flauto dritto LL, tamburo a cornice
12. Dixit pater familias [1:01] ms. I-Pa 2782, Perugia, sec. XIV
canto AT· coro AT AP BS
13. Poder á Santa Maria [4:46]
Cantigas de Santa Maria, sec. XIII
CSM 161
canto AT· coro AT AP BS —
salterio, arpa doppia, viella LP, flauti dritti LL GR, tamburo a
cornice
14. Felix vitis [2:50] ms. I-Pa 2785, Perugia, sec. XIV
salterio, arpa, vielle LP GR, flauto traverso
15. A que Deus [6:31]
Cantigas de Santa Maria, sec. XIII
CSM 351
canto AP · coro AT AP BS —
oud, arpa, flauto traverso, darbouka, riqq
16. O divina virgo flore [2:59] Laudario di Cortona, sec. XIII
canto BS · coro AT AP BS —
liuto, arpa, viella GR, flauto traverso, tamburo a cornice
17. On Parole ~ A Paris ~ Frese nouvelle [3:14] ms. Montpellier, sec. XIII
canto AT AP BS —
liuto, arpa, flauto traverso, campane EF
18. In taberna [4:02]
Carmina Burana, sec. XIII
CB 196
canto AT BS · coro AT AP BS RC FG GM LT —
arpa, viella LP, symphonia, flauto dritto LL, tamburo a cornice,
campanella
Antonella Tatulli · canto: #1, 3, 4, 5, 7, 11, 12, 13, 17, 18
· coro: #1, 2, 4, 5, 7, 8, 9, 10, 12, 13, 15, 16, 18
Assia Polito · canto: #1, 4, 5, 6, 15, 17 · coro: #1, 2,
3, 4, 5, 7, 8, 9, 10, 12, 13, 15, 16, 18
Baria Severo · canto: #1, 4, 7, 16, 17, 18 · coro: #1, 2,
3, 4, 5, 7, 8, 9, 10, 12, 13, 15, 16, 18
Riccardo Celentani · canto: #1 · coro: #1, 3, 4, 5, 9,
10, 18
Fabrizio Giovannetti · canto: #1 · coro: #1, 3, 4, 5, 9,
10, 18
Giorgio Monari · canto: #1 · coro: #1, 4, 5, 9, 10, 18
Leandro Teodori · canto: #1, 5 · coro: #1, 4, 5, 9, 10, 18
Elisabetta Di Filippo · salterio: #1, 5, 7, 13, 14
· campane: #4, 10, 17 · tamburi a cornice:
#3, 6, 11, 13, 16, 18 · darbouka: #15 · tabor:
#9
Olga Ercoli · arpa: #1, 3, 4, 5, 6, 7, 10, 11, 14, 15,
16, 17, 18 · arpa doppia: #13
Luigi Lupo · flauto traverso: #3, 4, 7, 9, 14, 15,
16, 17 · flauti dritti: #1, 5, 6, 10, 11, 13, 18
· campanella: #18
Luigi Polsini · viella: #1, 4, 6, 9, 10, 11, 13, 14, 18
· oud: #15 · liuto: #5, 7, 16, 17
· saz: #3
Gianfranco Russo · viella: #1, 3, 6, 7, 9, 10, 11, 14,
16 · symphonia: #4, 18 · flauti dritti:
#5, 13 · riqq: #15
Trascrizioni e revisioni: Gianfranco Russo
Elaborazioni: Gianfranco Russo e Luigi Polsini
Traduzioni: Gianfranco Russo (latino e gallego-portoghese), Giorgio Monari (provenzale e francese antico)
Produzione: Gianfranco Russo
Produzione esecutiva: Giuseppe Moscati
Collana diretta da Claudio Pelati
Recording, mixing, mastering: Stefano Albarello
Registrato il 22,23,24–07–2003 presso l'Oratorio S. Eligio de' Ferrari, Roma
Grafica: Marco Animobono
Il vino, la vite e
la vigna nel Medioevo
Cantato dalla poesia profana, celebrato nel simbolismo religioso,
prescritto dalla medicina ed elemento fondamentale dell'economia, il
vino costituisce un importantissimo tassello della cultura medievale.
Già affermata dal IV millennio a.C. in Mesopotamia, la
civiltà del vino giunse in Europa attraverso l'Egitto, la Grecia
e la Spagna. Ampiamente diffusa nell'area mediterranea la coltivazione
della vite subì una battuta d'arresto tra il III e IV secolo
d.C., con la crisi dell'impero romano, a causa del disordine politico
ed economico e dell'insicurezza derivatane, che non consentivano
l'impianto di colture agricole a lungo termine. La continuità
della produzione fu garantita dalla necessità della Chiesa di
avere disponibilità di vino per usi liturgici. Il vino
portò nel Medioevo il bagaglio simbolico che aveva accumulato
nei secoli passe-ti. Mezzo di comunicazione con la divinità ed
elemento rituale, non poteva mancare nelle cerimonie nell'antico Egitto
dove l'uva era detta "occhio del dio Horus". Nelle religioni
dell'antichità il vino era considerato un dono degli dei portato
agli uomini da Osiride per gli egizi, da Bacco/Dioniso per i latini e i
greci, da Saturno per gli italici e da Noè per gli ebrei, mentre
per gli etruschi era Voltumna il dio protettore delta vite. Bevanda di
vita e d'immortalità era presente nelle commemorazioni e nei
banchetti funebri e veniva sparso sulle tombe nelle cosiddette
libagioni. Come d'uso nei riti funerari greci, la pira su cui arse il
corpo del troiano Ettore fu spenta con "onde di purpureo vino" e, nel
XII secolo, la Chanson de Roland recita che Carlo Magno fece
lavare col vino i corpi dei caduti di Roncisvalle, prima di comporli in
sacelli di marmo. Veicolo della possessione divina nei misteri
dionisiaci greco-romani, in altri antichi culti il vino veniva
mescolato al sangue nelle offerte sacrificali o ne prendeva il posto
sublimandolo. Il vino rosso aveva col sangue un legame fortissimo:
nelle Gesta Romanorum (1300 ca.) si narra che Noè,
biblico inventore della bevanda, per stemperarne l'asprezza originale,
concimasse le viti col sangue di quattro animali, leone, agnello,
scimmia e maiale, infondendone nel vino anche le caratteristiche, che
passavano poi, in varie combinazioni, nel comportamento dei bevitori.
Per la mistica Hildegard von Bingen (XII sec.), la terra, resa impura
dal sangue del delitto di Caino, si purifica trasformandolo nel succo
dell'uva. Ma il più profondo livello di correlazione tra le due
sostanze si raggiunge nel 1215, quando il Quarto Concilio Laterano
afferma il dogma della transustanziazione, secondo cui il pane ed il
vino dell'eucaristia non simboleggiano, ma sono di fatto la carne e il
sangue del Cristo. Quando Cristo, nell'ultima cena, consacrando il vino
pronuncia le parole "Questo è il mio sangue, il sangue
dell'Alleanza", si ricollega al sangue sacrificale offerto da
Mosè nell'Antica Alleanza di Dio col popolo ebraico. L'antica
usanza di suggellare col sangue patti e intese, si trasformò in
quella meno cruenta di sostituirlo col vino, che, ancora nel Medioevo,
mantenne grande importanza anche nella definizione dei trattati di pace
e negli accordi politici. Fin dal 1262 abbiamo tracce del "vinicopium"
o "vinum testimoniale", cioè del valore vincolante del vino
negli atti di compravendita.
Ma il vino, bevuto dal "calice dell'ira" era nell'antico testamento
anche il simbolo della collera divina e la stessa allegoria appare
nell'Apocalisse di Giovanni: "Chiunque adora la bestia e la sua statua
e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, berrà il vino
dell'ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira".
Nella parola biblica il vino è considerato con ambivalenza nel
rappresentare il bene o il male. Da una parte c'è l'idea del
vino come dono di Dio che allieta il cuore, ricordiamo nei Proverbi
l'esortazione a dare "...vino a chi ha l'amarezza nel cuore. Beva e
dimentichi la sua povertà e non ricordi più delle sue
pene", lo stesso Cristo nell'ultima cena dice: "In verità vi
dico che io non berrò più del frutto della vite fino al
giorno in cui lo benrrò nuovo nel regno di Dio". Ma sempre viene
condannato l'eccesso, fonte d'ogni male: "Il vino è rissoso, il
liquore è tumultuoso; chiunque se ne inebria non è
saggio". La stessa ambiguità si trova nell'Islam, dove il vino,
condannato e proibito perché inebria e distoglie dalla
preghiera, tuttavia promesso come dono nel paradiso di Allah, dove
"scorrono ruscelli in cui scivola il vino, delizia ai palati
raffinati". Tra l'altro i massimi cantori del vino tra XII e XIII
secolo furono musulmani come Khayyam, Attar, Rumi, tanto da far pensare
che solo l'Islam andaluso, quello di Spagna, fosse rigoroso nel seguire
le prescrizioni coraniche. Un ricchissimo simbolismo comprende tutte le
fasi della produzione del vino: dalla vigna, alla vite, fino alla
spremitura dell'uva, dove il torchio è mistica allegoria del
sacrificio del Cristo e il succo che ne fuoriesce metafora del suo
insegnamento. La vigna, che già nell'Antico Testamento
rappresentava il popolo ebraico, Israele stesso, l'opera del Signore,
diventa nella dottrina cristiana l'immagine della Chiesa, e vignaioli
ne sono i fedeli; chi bene avrà lavorato nella vigna,
avrà dal "pater familias" la giusta ricompensa, simbolo del
giudizio finale del Padre Eterno. La vite rappresenta il Cristo, "vera
vite" da cui si dipartono i tralci, immagine dei discepoli, diffusori
della sua parola. Con la vite è raffigurata Maria Madre: "Salve,
o vera vite che hai prodotto il grappolo maturo da cui è
stillato il vino che rallegra le anime di quanti con fede ti
glorificano". La fruttifera vite, che nella tradizione ebraica era
l'albero dell'Eden, è anche allegoria della Sapienza e della
sposa feconda del giusto. In virtù di questa profonda simbologia
religiosa gli abiti sacerdotali, i capitelli, i fregi delle chiese sono
ornati di grappoli, pampini e foglie di vite.
Il vino è, dai più antichi tempi, associato alla
sessualità: la parola "vino" deriva dal sanscrito "vena", la cui
radice "ven" significa piacere, amare (da cui Venus, Venere) ed
è alla base dei nomi del prezioso nettare nelle varie lingue:
"oinos" in greco, "vinum" in latino, "wein" nelle lingue germaniche e
"wine" in quelle anglosassoni. Il vino è, dunque, per tutte le
civiltà, apostolo d'amore, di felicità e di voglia di
vivere e patrono della fertilità e della procreazione.
Protagonista dei riti orgiastici nei culti bacchici per la sua forza
liberatrice e disinibitoria, anche nel racconto biblico di Lot
(ubriacato e sedotto dalle figlie per ripopolare la regione priva di
uomini, dopo l'annientamento di Sodoma), ottundendone la coscienza,
aggira i tabù della morale in funzione rigeneratrice. Più
poetico è il mistico simbolismo erotico del vino nella sensuale
spiritualità del Cantico dei Cantici. L'esegesi del XII secolo,
riprendendo la simbologia della patristica più antica, leggeva
nella lirica nuziale della Sposa e dello Sposo, l'unione spirituale
dell'Anima, o della Vergine, con Dio/Cristo. Il Cantico si apre con le
parole della Sposa: "Mi baci con i baci della tua bocca! Le tue
tenerezze sono più dolci del vino", e ancora, "Mi ha introdotto
nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore". Lo
Sposo risponde: "Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino", tuo ombelico è una coppa
rotonda che non manca mai di vino drogato". E di nuovo la Sposa: "Il
tuo palato è come vino squisito, che scorre dritto verso il mio
diletto", "Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno".
Ben diversa e terrena è la prospettiva in cui si celebrano il
vino e l'eros nella poesia goliardica del XII e XIII secolo, dove vino,
dadi e donne sono al contempo cagione e meraviglioso conforto della
costante indigenza che ne affligge i cantori. Nonostante l'attenzione
che le autorità civili dedicavano alla coltivazione e alla
vinificazione -ricordiamo il Capitulare de villis, fatto
redigere da Carlo Magno in cui si disponeva "..che i nostri funzionari
si incarichino delle vigne, che appartengono al loro ufficio e le
facciano ben coltivare, che mettano il vino in buoni recipienti e
veglino diligentemente che non vada in alcun modo perduto"- furono la
Chiesa e, più in particolare, le comunità monastiche che
ebbero il merito della preservazione e dello sviluppo della viticoltura
fino a tutto il Medioevo; infatti, oltre che per le necessità
eucaristiche, il vino, pur senza abuso, era prescritto dalla regola
monastica come bevanda principale, energetica e terapeutica, per tutta
la comunità cenobitica. I conventi, relative oasi di pace in
tempi di disordine, epidemie e invasioni, oltre che luoghi in cui era
depositata la cultura del tempo, erano i posti ideali in cui
sperimentare e perfezionare la produzione. Se a questo aggiungiamo la
consuetudine durante il Medioevo di assegnare in eredità i
vigneti agli ordini monastici, possiamo capire il primato che
benedettini e cluniacensi ebbero nello sviluppo di tecniche di
vinificazione sempre più raffinate e volte a un risultato di
sempre più alta qualità.
Ogni mensa medievale era fornita di vino, bevanda popolare quanto, se
non più dell'acqua: quest'ultima era spesso un liquido malsano
ed inquinato, e il vino, di qualità variabile a seconda del
censo, mescolato all'acqua la disinfettava e purificava. L'usanza di
consumare il vino mescolato all'acqua era anche un retaggio dei riti in
cui la combinazione dei due elementi rappresentava l'unione del divino
con l'umano. Raramente il vino era gustato puro, tanto che l'atto del
versare il vino, cioè mescere, vuol dire appunto
mescolare. Con la progressiva urbanizzazione e l'aumentata
qualità e quantità della produzione, si svilupparono
scambi e mercati che portarono il vino a evolversi da prodotto
destinato all'alimentazione e agli usi liturgici, anche in merce
ricercata. Già dall'XI secolo, la sua produzione e il suo
commercio divennero fonte di ricchezza per la nascente borghesia
mercantile. Importantissima voce degli introiti fiscali, negli statuti
cittadini si moltiplicarono le norme concernenti la coltivazione della
vite, la vendemmia e, via via, fino allo smercio e al consumo del vino
nei nuovi esercizi prodotti dall'urbanizzazione che sono le taverne. Il
vino apprezzato nel Medioevo era principalmente giovane, di colore
chiaro e di gusto dolce. Il vino "vecchio" veniva tagliato con mosto o
vino novello. Per rendere il colore più chiaro e trasparente si
aggiungeva chiara d'uovo (il famoso chiaretto tanto di moda
sulle mense signorili). Nel caso il vino fosse rosso, piaceva di colore
intenso, spesso ottenuto dall'aggiunta di bacche nere o uve selvatiche.
Enorme favore incontravano i vini addolciti con miele, speziati con
cannella o chiodi di garofano, cotti con erbe e frutta.
Il vino era anche protagonista nelle raccolte di regole
igienico-sanitarie come i trecenteschi Tacuina Sanitatis. Puro
o come ingrediente di sciroppi ed infusi curava e preveniva i malanni.
Derivata dalla scuola degli antichi greci, la dottrina medica medievale
classificava le sostanze in base ai quattro temperamenti
(caldo, secco, umido e freddo) A loro volta associati ai quattro umori
(sangue, flegma, bile gialla e bile nera), di cui si riteneva fosse
formato l'organismo. Le malattie erano provocate dallo squilibrio di
questi umori e andavano curate con principi che, in base alle categorie
dei temperamenti, si trovavano all'opposto dell'umore che aveva
provocato la disarmonia. Il vino, di temperamento "caldo e secco",
nutre, riscalda, rallegra e infonde coraggio. Inebriante ed
euforizzante, era magnifico strumento di fuga dal quotidiano di un
Medioevo fune-stato da guerre, pestilenze, miserie e inquisizioni e
l'osteria era centro del piacere concreto e vitale.
In quest'ambito si viene a creare nel Medioevo una ricca letteratura
musicale, sacra e profana, sul vino e suite sue espressioni: il
programma si apre con Bacche bene venies, uno dei più noti
tra i Carmina Burana, popolare raccolta di canti satirici
goliardici, espressione della cultura dei clerici vagantes.
Erano, questi, studenti che avevano acquisito lo stato di chierici, per
poter frequentare le prestigiose università sorte nel XII secolo
presso le grandi cattedrali in tutta Europa. Il fatto di spostarsi da
un'università all'altra per seguire le lezioni dei maestri
più rinomati, da cui il termine vagantes, ne fece una
sorta di comunità cosmopolita portatrice di una cultura
sovranazionale. La poetica goliardica, infatti, pur essendo produzione
del basso clero, sembra rifarsi, più che all'etica cattolica,
alla poesia araba o dell'antichità classica e canta il vino,
associato ai piaceri terreni come il sesso e il gioco, e la taverna
come tempio del piacere collettivo. L'inno a Bacco, dio dell'ebbrezza,
percorre tutti gli effetti che la magnificata bevanda ha su uomini e
donne in un crescendo di terrena felicità. Altra celebrazione
è dedicata in un altro brano della raccolta ad Epicuro, il
filosofo greco della ricerca del piacere (sarebbe meglio dire del
controllo delle passioni, che possono generare il dispiacere), che in Alte
clamat Epicurus viene forzosamente trasformato in sacerdote di
crapule e bagordi, devoto del dio Ventre. Nel canto In taberna
compare quello che si può definire il manifesto della visione
del mondo dei goliardi: la vita passata in promiscua baldoria tra
gioco, donne e vino. L'ultimo dei canti tratti dai Carmina Burana, Procurans
odium, appartiene ad un altro dei filoni della poetica dei chierici
vaganti, quello moraleggiante e propone un'immagine dell'analogia
vino-sangue in cui dall'uva si vendemmia il sangue dei nemici
maldicenti. Sempre al repertorio goliardico, in particolare a quello
della medievale "festa dei folli", in cui una volta all'anno si
sovvertiva ogni regola e gerarchia, addirittura fino alla celebrazione
di messe blasfeme, appartiene la sequenza Vinum bonum,
contrafactum della sequenza mariana "Verbum bonum", in cui le lodi alla
Vergine vengono sostituite dall'esaltazione del vino. La tecnica del
contrafactum, cioè la sostituzione del testo di un brano
lasciando invariata la musica, la metrica e la struttura delle rime e
delle assonanze, era molto usata anche dai trovatori, oltre che dai
clerici vagantes, ed è una tecnica particolarmente raffinata che
richiede una comunità chiusa la quale, conoscendo l'originale,
sia in grado di apprezzare l'artificio. Anche i tre canti Bache
bene venies, In taberna e Alte clamat Epicurus, sono
parodic rispettivamente di conducti del Ludus Danielis e di un
canto di crociata di Walther von der Vogelweide conosciuto come Palastinalied.
Al genere della lauda monodica in volgare appartengono le quattro Cantigas
de Santa Maria, un corpo di oltre quattrocento canti in
gallego-portoghese, raccolti su disposizione di Alfonso X, "El Sabio",
nella Spagna della seconda metà del XIII secolo. Con intento
celebrativo-moraleggiante raccontano di miracoli compiuti da Santa
Maria per soccorrere i suoi fedeli e punire i peccatori: Como Deus
fez vynno e A que Deus narrano il miracolo della
moltiplicazione del vino in diverse circostanze, mentre in Poder
á Santa Maria la Vergine protegge dalla grandine la vigna di
un suo devoto. In Ben pod'as cousas infine fa scomparire una
macchia di vino rosso da una candida tovaglia d'altare. Sempre al
genere della lauda in volgare, ma questa volta in italiano, appartiene O
Divina Virgo flore, tratta dal Laudario di Cortona, una raccolta di
monodie duecentesche di area tosco-umbra. In questa lauda appare il
tema di Maria Madre che genera il Cristo e quindi "porta il vino e il
pane" simboli e concreta sostanza del suo sacrificio.
Alla poesia trobadorica appartengono due brani: Ges de disnar,
del trovatore Bertrand de Born, e l'anonimo e ironico L'autre
ièr cuidèi aver druda. Nella poetica del trobar
clos, il vino compare, senza particolari iperboli, come semplice
elemento del buon vivere, da offrire agli ospiti per buona accoglienza
e complemento di una buona tavola. Dalla trecentesca satira del Roman
de Fauvel proviene il mottetto politestuale a tre voci Quand je
le voi/Bon vin doit/Cis chans veult boire, in cui ogni voce canta
con testo diverso l'inno a un'allegra compagnia di beoni. Di analoga
struttura il mottetto duecentesco On parole/A Paris/Frese nouvelle,
tratto dal codice di Montpellier, uno dei monumenti della polifonia
dell'Ars Antigua del XIII secolo, in cui, su un tenor tratto
dalle grida di strada del venditore di frutta, le due voci superiori
tessono le meraviglie della città di Parigi dove si trovano
buoni compagni, fanciulle disponibili, buon cibo e, soprattutto, buon
vino, naturalmente "chiaretto". La forma del mottetto medievale
appartiene ad un genere di polifonia, che tocca una perfezione mai
più raggiunta nei successivamente: infatti si sviluppano insieme
da due a quattro voci che dal punto di vista musicale hanno senso
autonomo, a differenza delle voci della polifonia dei secoli
successivi, in cui nessuna voce presa a sé stante ha senso
compiuto. Inoltre a sommo compimento di questa armonica autonomia le
voci potevano avere testi diversi e addirittura in diverse lingue, come
il francese e il latino.
Infine alla liturgia domenicana appartengono i brani di cantus
planus tratti da codici del XIV secolo. Deficiente vino,
antifona per i vespri della domenica dopo l'Epifania, è un canto
che si fa risalire all'870 e rievoca il primo miracolo di Cristo,
quello della trasformazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana. Il
coevo, Dixit Pater familias, si riferisce alla parabola degli
operai-fedeli e della vigna-Chiesa. L'antifona Sacerdos in aeternum
celebra l'istituzione dell'eucaristia con la consacrazione e l'offerta
del pane e del vino. Infine Felix vitis è la versione
mensurale strumentale di un responsorio dell'officium del mattutino, in
cui si esalta l'immagine del Cristo, Mistica Vite, fonte di Celeste
Vino, Bevanda di Vita. In tanta ricchezza e ambiguità è
difficile dire se il "nettare degli dei" fosse più strumento di
felicità terrena o mistico tramite di trascendente
spiritualità, comunque... in vino veritas.